Cammarata3 • parte 7di7 – La volpe e l’uva

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«È da qualche tempo che avevo notato uno strano atteggiamento in Nascimbene. Nervoso, si assentava per intere notti, parlava sempre di un misterioso “tesoretto” nascosto…»
«Nascimbene…?»
«Eh? oh si, commissario. Lo chiamo spesso per cognome. Sa, per mantenere le distanze. Siamo, come si dice, separati in casa.»
«Capisco. Mi ha detto che ci ha seguito per… cautela…»
«Si. Da mesi ormai non mi fido più totalmente di lui.»
«E questo misterioso “tesoretto” di cui mi ha parlato? sarebbe, secondo lei, il motivo per cui il signor Nascimbene ha perso il nume della ragione? di cosa si tratterebbe esattamente?»
Crodomira Zavaglia esitò corrucciando la fronte, come fosse alla ricerca di un senso logico agli atteggiamenti di chi la logica la ha scordata completamente «posso solo ipotizzare che pensasse a un lascito da parte dei De Mancipaglia di Cipro. Per qualche sua ragione personale pensava fosse rimasto ancora qualcosa del capitale dilapidato dalla famiglia».
«E lei invece cosa pensa in merito alla questione?»
«Io? penso che il passato dovrebbe essere lasciato al… passato. Non ci sono modi perchè il presente lo comprenda appieno. Sono tempi diversi. Tempi che vanno in comune disaccordo».
«Vito, quando vuoi noi siamo pronti a rientrare» intervenne Carletto “il lungo” Baccaroso facendosi voce dalla porta di ingresso. La volante con a bordo Carmelo Nascimbene aveva già preso la via per il commissariato di Trieste.
«Fai cenno a Soraro di mettere pure in moto, vi raggiungo tra un momento» gli rispose Vito trattenendo lo sguardo sul  fascinoso viso della contessa, ora chiusa in una cupe tenebra umorale che la faceva sembrare irraggiungibile ai comuni mortali «ora devo andare, contessa Zavaglia. Ma ho un’ultima cosa da domandarle, poi prometto di lasciarla riposare…»
la donna non rispose, limitandosi ad alzare lo sguardo con espressione interrogativa. Gli occhi baluginavano nella penombra, mentre una ciocca ribelle le scendeva in mezzo.
«…è possibile che suo… marito usasse due fucili per spaventare la gente troppo… curiosa? glielo domando perchè i bossoli rinvenuti appartengono al fucile da caccia con cui lo ha colpito, non alla lupara che lui ha usato per colpire me.»
«Nascimbene non è mai stato troppo costante nemmeno con le armi, commissario. In fondo, per così come stanno le cose, se ci fosse una logica sarebbe persino… preoccupante, vero?»
concluse illuminandosi il volto con un leggero sorriso freddo e disarmante che spiazzò, ancora una volta, Vito.
«Chi può dirlo, contessa. Chi può dirlo… È stata per me una notte piuttosto… movimentata. Per ora la saluto, ma la prego di tenersi a disposizione per ulteriori approfondimenti. Se ha in programma di lasciare Muggia a breve, rimandi per cortesia».
Poi l’uomo del sud salutò per l’ultima volta Crodomira Zavaglia, avvertendo dentro di sè la strana sensazione che non l’avrebbe rivista per molto tempo a venire.
«Hai una faccia strana, Vito. Abbiamo preso il mattocchio che sparava addosso ai cristiani… non ti senti soddisfatto?»
interruppe il suo filo dei pensieri Carletto “il lungo” Baccaroso, una volta raggiunta l’auto in sosta. Muggia stava per mettersi a dormire, al suo risveglio si sarebbe ritrovata con due abitanti in meno.
«Carletto… ti hanno mai raccontato la favola della volpe e dell’uva? la via per Trieste è ancora lunga. Presta attenzione perchè ho tutta l’intenzione di raccontartela un paio di volte».
La tenda della casa lasciata alle loro spalle si mosse permettendo a un paio di occhi verde marino di osservare la volante guadagnare strada e sparire dietro il tornante. Poi la luce della stanza si spense e tutto si mise a tacere.

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Cammarata3 • parte 6di7 – La volpe e l’uva

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“Trovarlo… ma trovare che cosa? questo… vecchio potrebbe essere l’ultimo nobile deceduto…?”
Vito Cammarata non riusciva a evitare di far lavorare la sua logica curiosa, una caratteristica naturale e approfondita in tanti anni di professione. Anche ora, sotto la minaccia di un’arma da fuoco. Forse per mettere in secondo piano la colpa di essersi lasciato sorprendere, forse per cercare una via di uscita a una faccenda che precipitava rapidamente, dove in fondo alla caduta si trovava la sua stessa vita. Pensava e ragionava, nonostante il terribile mal di testa limitasse la sua lucidità.
«Non commetta sciocchezze… posi a terra quel fucile… non rischi di aggravare la sua situazione… posi il fucile a terra.»
«Sono stufo di vedermi gente intorno… stufo! me ne frego di quello che il vecchio infernale ha sepolto. Ma se non posso averlo io non lo avrà nessuno; marchiatevelo bene in fronte!»
gli rispose l’uomo senza accennare ad abbassare la lupara «chi vi credete di essere per portarmi via quello che mi spetta di diritto? chi vi credete di essere??»
«Ne possiamo parlare… posso aiutarla, se mi permette di capire meglio la situazione… cosa le vorrebbero portare via?»
riprese a chiedere il commissario, facendo scivolare con studiata lentezza la mano sinistra dietro la schiena. Forse, se si fosse mosso con rapidità nel momento decisivo, avrebbe raggiunto la piccola pistola di scorta che teneva nascosta dietro la cintura. Era una mossa molto azzardata e il suo avversario si era già dimostrato sin troppo veloce, ma Carmelo Nascimbene non dava l’impressione di volersi calmare e il suo dito poggiava con frenesia sopra il grilletto dell’arma che stava imbracciando.
«Parlare?!? è finito il tempo delle parole! io vi accoppo… vi accoppo uno ad uno. Raccomanda l’anima a Cristo e vai a farti fott…»
non terminò la frase, il suo sragionare si bloccò in un’espressione di dolore mentre il corpo scivolava verso il basso. Un movimento annunciato da un tonfo sordo alle spalle dell’uomo con la lupara, da una sagoma che entrava nel campo visivo di Vito Cammarata, anch’essa armata di fucile che teneva per la canna, avendo brandito il calcio sulla nuca del marito.
«Contessa Zavaglia…?!?» esclamò sorpreso il commissario rialzandosi a fatica con un senso dell’equilibrio ancora incerto.
«Oddio… lo avrò mica…»
«No… stia tranquilla. Si risveglierà con un mal di testa grosso come il mio ma respira, da quanto posso sentire» la rassicurò avvicinandosi e toccando l’uomo svenuto.
«La devo ringraziare, contessa. Suo marito mi avrebbe sparato.»
«Lui non è cattivo… mi creda…»
«Forse è vero. Ma dovrò farlo venire a prendere. Ci sono molte domande a cui deve rispondere. Sia lui… e sia lei. Voglio fare chiarezza su questa faccenda una volta per tutte.»
Crodomira Zavaglia lo guardò silenziosa, una ciocca di capelli le nascondeva parte del volto, con la mano destra si insinuò in quella chioma corvina per scostarla verso il collo. Il viso risplendeva di luce propria mentre una luna timida iniziava a farsi vedere in cielo.

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Cammarata3 • parte 5di7 – La volpe e l’uva

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Il sole che filtrava tra le vigne colpiva gli occhi chiusi di Vito Cammarata come un maglio. Quando si sforzò di socchiuderli, iniziò a farsi sentire anche l’emicrania e, a ogni istante successivo, si rese conto di quanto il dolore fosse crescente. Come ci era arrivato lì? La mente era confusa e i ricordi si accavallavano gli uni con gli altri (“una commozione cerebrale?”); vedeva il volto di Carletto “il lungo” Baccaroso farsi avanti nella nebbia, parlargli come da dietro una protezione di ovatta dove le parole passavano a intermittenza senza possibilità di regolarne il volume (“se almeno urlasse di meno…”). Vedeva il volto della contessa russa, i suoi lineamenti regolari e pregni di misterioso fascino, i suoi sguardi allusivi e allegri di contraltare alle cupe nubi che ne attraversavano spesso il viso (“bella donna… fatale bella donna…”). Vedeva e ancora si domandava “come accidenti sono finito qui tra le vigne?”. Provò a muoversi, portandosi istintivamente la mano destra dietro la nuca; era sdraiato a terra (“da quanto sono… steso?”) e quel semplice movimento gli causò ancora una fitta alla base del capo. Con le dita riuscì a percepire un grosso bozzo (“da quanto… mi hanno steso?”) e fu come aprire un vaso di pandora da cui uscirono altre voci poco conosciute.
“… Posso accompagnarla io sul posto, commissario…”
“… Ah, quindi conosce il punto preciso in cui, di notte, avvengono questi strani movimenti?”
“Conoscerlo lo conosco, diciamo pure. Soffro di insonnia e mi capita, qualche volta, di passeggiare tra le vigne prima dell’alba. Le conosco come fossero casa mia, ci posso passare in mezzo anche a occhi bendati.”
“E cosa avrebbe visto quella notte?”
“Persone, commissario. Ho visto un piccolo gruppetto di persone con delle torce elettriche. Posso farle vedere i punti dove hanno iniziato a scavare…”
Nell’ovatta ricordò anche la favola di Esopo. La furbizia della volpe che aveva reagito alla sconfitta arrivando a disprezzare il premio tanto apparentemente desiderato. La volpe aveva sognato il grappolo d’uva scoprendo poi, al risveglio, che quel grappolo esisteva veramente. Tentando di appropriarsene, venne investita dal fallimento. Da quel momento, il grappolo perse di importanza perchè ritenuto palesemente acerbo.
«Non me ne frega niente di trovarlo. Quel vecchio può anche bruciare all’inferno, per quel che mi riguarda. Sicuramente si tratterà di un’altra delle sue fregature!» sbuffò con stizza Carmelo Nascimbene, il marito della contessa Zavaglia, mentre teneva sotto il tiro di una minacciosa lupara Vito Cammarata «però ne ho piene le scatole di vedermi ficcanaso in giro; prima vi avvisavo “gentilmente”… ma, poichè siete sordi agli avvertimenti, da adesso ho deciso di cominciare ad accopparvi» concluse, avvicinando la doppia canna mozza dell’arma alla testa di Cammarata.

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Cammarata3 • parte 4di7 – La volpe e l’uva

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«Non ha mai notato dei movimenti, dei fatti, qualcosa fuori dall’ordinario, nei dintorni della villa?»
L’aria sapeva di antico in quel luogo. Non di vecchio, ma di antico. Di qualcosa che, in altro tempo, aveva posseduto un valore così rilevante da essersi rifiutata di invecchiare e imbruttire come la maggior parte delle cose abbandonate e vecchie. Vito Cammarata, benchè uomo di legge e di logica, non poteva sottrarsi all’atmosfera che circondava la villa e la vasta distesa di vigneti ai suoi piedi. Ma non poteva neppure evitare di porre domande mirate alla contessa Zavaglia.
«La villa apparteneva ai nobili che hanno adottato mio nonno, nativo dalla Russia, da parte di padre, commissario. Non ho mai avuto con la famiglia un rapporto particolarmente… affettuoso. Ho “ereditato” un titolo che non mi appartiene. Di riflesso non mi appartengono nemmeno i beni di quella famiglia. Ma qui sono nata e in questi posti ho vissuto gli anni migliori; quelli della adolescenza. Posso amarli, a mio modo, ma me ne tengo a debita distanza.»
«Capisco» rispose Vito, contenendo una relativa rassegnazione «il posto è abbandonato. Qualcuno coltiva ancora i vigneti?»
«L’ultimo nobile della famiglia, prima di morire, fece un patto con uno dei contadini. Rimasto senza soldi, persi al gioco e in altri vizi che non ho mai approfondito, gli cedette la piccola parte restante delle vigne perchè se ne prendesse cura. Un ultimo atto di affetto, credo, se possiamo chiamarlo così, nei confronti delle proprie fortune dissipate. Il resto, come può ben vedere, è stato lasciato al proprio destino.»
«Ah… e dove posso trovare il contadino che gestisce il vigneto?»
l’occhio scoperto dalla chioma bruna brillò di una luce più soffusa che per un attimo sembrò permettere anche all’altro, parzialmente nascosto, di farsi largo attraverso quei lisci e lunghi filamenti di seta «le sarà sufficiente fermarsi a pranzo a casa mia, commissario Cammarata, e potrà esaudire la sua curiosità.»
Dopo qualche istante, una risata divertita sottolineò maggiormente il fascino di Crodomira Zavaglia.
«Beh, come mai ora si mette a ridere…?»
«Mi scusi, non ho saputo trattenermi. Dovrebbe vedere il suo volto sorpreso. Si; il contadino mangia a casa mia. Ma non si preoccupi, non c’è niente di strano in questa particolarità. Nulla su cui investigare, perlomeno così credo.»
«Ah no? sull’invito a pranzo o sul fatto del contadino ospite?»
«Su entrambe le cose. In realtà sono collegate ed è tutto più semplice di quanto possa pensare. Vede, in realtà, il contadino in questione mangia quasi tutti i giorni a casa mia. Trattandosi di mio marito.»
«Un mistero svelato, quindi. Un lavoro in meno per me.»
«Così penso. Adesso, se non ha altro da vedere qui, essendo quasi ora di preparare il pranzo della giornata, io tornerei sui miei passi» gli rispose la contessa, tornata nuovamente seria e distaccata. Rivelando una capacità di cambiamento umorale repentina che non avrebbe tardato a stupire ancora Cammarata.

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Cammarata3 • parte 3di7 – La volpe e l’uva

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Mentre si avvicinava al cancello nero, Vito Cammarata aveva cercato di giocare con l’immaginazione. Si era immaginato Crodomira Zavaglia (la contessa Crodomira Zavaglia) ricoperta da un lungo scialle, ricurva su un bastone dal pomo di ottone, mentre i capelli argentati le danzavano disordinati sopra le spalle e le rughe del volto formavano dei sentieri dalla dubbia destinazione. Nulla di più sbagliato: Crodomira Zavaglia non si rivelò una anziana e decadente nobile, ma una giovane donna la cui bellezza si divertiva a togliere il fiato ai fortunati che la incrociavano.
«Cosa vuole?» chiese dopo che l’uomo del sud si presentò al cancello nero di una abitazione celata da una folta e verde edera.
«Come le ho spiegato, vengo da Trieste. Mi hanno detto di rivolgermi a lei per farmi indicare come arrivare alla villa nobiliare della famiglia De Mancipaglia di Cipro.»
«Le hanno detto bene. Posso indicarle come arrivare alla villa. Se mi fornisce una spiegazione soddisfacente per la sua visita» concluse la contessa, mentre una ciocca color ebano nascondeva metà del suo viso incantevole e l’occhio sinistro brillava di un intenso verde marino.
«Mettiamola così. Le ho detto il mio nome, non la mia qualifica: sono commissario a Trieste. Al momento non sono qui in via ufficiale, ma ufficiosa. Ho motivo di credere che una camminata fino alla villa possa, forse, evitarmi di tornare qui in maniera, stavolta, del tutto ufficiale. Ora può indicarmi la strada?»
«Interessante. Si, credo di poterle indicare la strada. Anzi, posso anche accompagnarla. Prego, entri pure commissario.» La contessa lo invitò disegnando un mezzo arco con la mano e il braccio destro, mentre schiudeva il pesante cancello in ferro. Per un istante, a Vito Cammarata sembrò di attraversare la soglia di un altro mondo; un ricco paesaggio traboccante di olmi e rampicanti si distese davanti ai suoi occhi. Gli odori inequivocabili della foresta salivano alle sue narici e, insieme ad essi, il profumo lieve e gradevole che circondava la contessa.
Crodomira Zavaglia gli indicò una scala seminascosta che si infilava in un fitto fogliame, per inerpicarsi con decisione verso l’alto. Vestita di un comodo paio di jeans e da una camicetta annodata in vita, la giovane contessa prese a salire i primi gradini, dopo aver regalato un ultimo enigmatico sguardo al commissario. In quella situazione, così ormai vicino a raggiungere la vigna, non potè fare a meno di pensare alla favola di Esopo. Il grappolo d’uva esisteva e, probabilmente, il ruolo della volpe sarebbe stato allontanato una volta raggiunto il posto dove, per una questione di millimetri, Carletto “il lungo” Baccaroso non aveva perduto buona parte della sua capigliatura per una pettinata al piombo. Provò a non fissare troppo i fianchi della donna davanti, ma l’impresa si rivelò piuttosto ardua: le curve della giovane contessina erano molto più sinuose e morbide di quelle della scala in pietra.

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Cammarata3 • parte 1di7 – La volpe e l’uva

Quel giorno la Bora soffiava con particolare insistenza, incuneandosi tra i bassi valichi e avvolgendo Trieste con refoli che tagliavano l’inverno vanificando la speranza di una vicina primavera. Carletto “il lungo” Baccaroso procedeva piegato su se stesso per proteggersi dal vento contrario e le imprecazioni che lanciava formavano una scia malevola alle sue spalle. Avrebbe preferito trovarsi in un altro posto, in un altro momento; ma Carletto “il lungo”, soprannominato tale da colleghi e delinquenti, a conti fatti, si lamentava sempre.
«Ma è mai possibile… porco mondo, sballato, fuso, congelato ti si potesse arenare… possibile capiti sempre a me?»

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Battendo i denti e scrollando il capo come fosse grondante d’acqua, rimase fermo per qualche istante, una volta varcata la porta del commissariato di polizia. Tra le poche cose certe del suo modo di agire talvolta indisponente, la principale era quella che non passava inosservato. E, sotto certi aspetti, Vito Cammarata la considerava una delle sue qualità principali.
«Che hai Carletto? hai mangiato male a colazione?»
«Colazione, colazione… commissario, io la colazione me la sono giocata tutta. Non mi è rimasto proprio niente. Mi rovesciasse adesso da capo a piedi, dentro di me, non troverebbe altro che farfalle!»
«Carletto… tralasciando il fatto che per rovesciare uno come te, da capo a piedi, mi ci vorrebbe un cristiano alto due metri e mezzo, puoi scacciare le “farfalle” con un caffè ristretto. Poi, una volta che ti sarai riempito lo stomaco, puoi farmi il sacrosanto piacere di venirmi a dire cosa ti scombussola l’animo.»
Vito Cammarata accompagnò il suo discorso mettendogli una mano sulla spalla, notando come, una volta illuminato il viso sotto la luce dell’ingresso, il pallore naturale fosse ancora più marcato del solito. Brontolando sommessamente bevve il caffè del commissariato, concendendosi delle piccole pause tra una sorsata e l’altra, gustandosi la sua miscela preferita che lo riportò lentamente a una parvenza di benevolo umore.
«Si ricorda di avermi “consigliato” di fare delle lunghe passeggiate in riva al mare, vero commissario, e magari, se potevo e se non mi arrecava troppo “disturbo”, girare dalle parti di Muggia, e magari, nella zona del castello che si affaccia sul porto?»
«Mi ricordo, Carletto, mi ricordo… ti chiesi di dare un’occhiata verso le acque del Vallone» confermò Vito Cammarata gesticolando pazientemente con la mano mentre restava in piedi appoggiato all’angolo della scrivania «perchè un uomo con la tua esperienza poteva cogliere… dettagli utili della gente del posto.»
«Bene. E così ho fatto sino a questo mattino, commissario» confermò Carletto “il lungo” Baccaroso con tono solenne «però, io lì, non intendo più tornarci, e vorrei la sua approvazione in merito.»
«No…? e come mai, hai qualche problema con la zona?»
«Con la zona no, nessun problema. Anzi, l’aria è buona, ci si arriva in venti minuti, c’è il leone di San Marco e ci sono le calli. Però, come le ho detto, preferirei non ritornarci.»
«Carletto, non hai obblighi… se così preferisci, non andarci più.»
«Grazie… ehm, commissario Cammarata.»
«Va bene. Ma, se non ti è di troppo disturbo eh, è successo qualcosa… un fatto, forse, che dovrei conoscere anche io…?»
«Commissario…» riprese “il lungo” con aria seria, sporgendosi in avanti dalla sedia che aveva occupato per consumare il caffè offertogli «la verità… è che, in tanti anni di onorato servizio nel corpo della polizia… ehm, le posso parlare da uomo a uomo?»
«Naturalmente Carletto. Sentiti libero di dirmi qualsiasi cosa!»
«Ebbene, commissario Cammarata, la verità è che…» riprese chiudendo pollice e indice della mano destra in un’improbabile cerchio nervosamente serrato «… la verità è che in tanti anni di onorato servizio io, Carletto Baccaroso, non sono mai arrivato tanto vicino a farmela addosso come invece mi è capitato a Muggia!»
concluse abbassando la voce e biascicando le ultime parole.

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Cammarata2 • parte 6di6 – La leggenda del lupo grigio

Vito Cammarata non ci era riuscito. Il termine poteva risultargli antipatico e pesante ma era corretto. Per quanto avesse fatto appello alle sue doti umane, Morena era rimasta nella sua casa di montagna. Diana Sintuosi non gliene aveva fatto alcuna colpa reputandola sin dal principio un’impresa di convincimento disperata in cui lei stessa era caduta. Tuttavia non amava perdere, e la consapevolezza delle attenuanti gli dava poco conforto. Così decise di prendersi l’impegno di fare visite saltuarie all’anziana, chiedendo anche il favore ad un sottoposto che viveva in zona di alternarsi con lui.

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La nonna di Diana accettava con piacere le visite, scambiando qualche parola sulla terra natìa; nonostante la famiglia se ne fosse andata quando lei era ancora una bambina, portava quella terra ancora dentro il cuore. Rammentava con piacere frammenti della città barocca, ricostruita dai catanesi nonostante più volte bersagliata dai terremoti. Ricordava l’Etna, gigante di roccia lavica a metà strada tra Messina e Siracusa, e le vaste aree coltivate della ‘a chiana. La stessa guardia forestale era più serena sapendo di poter contare su altre due persone che periodicamente la visitavano. Nonostante i contatti però non fece più alcun riferimento alla leggenda del lupo grigio. Parlò ancora di Carmelo, ed ogni volta il cuore della Morena più giovane sembrava riscaldare le vecchie membra stanche. Raccontò di come proseguì con orgoglio a salvare soldati dalle grinfie del nemico e dalle insidie della montagna, di come potè costruire una famiglia mettendo al mondo il padre di Diana sul finire della guerra. Un figlio che Carmelo ebbe la gioia di poter stringere tra le braccia prima di riprendere la via dei monti per non fare più ritorno. Vito venne a conoscenza della gioia e della sofferenza di quella donna, mentre la storia del lupo grigio riposava nei ricordi del loro primo incontro.
«Un giorno Carmelo tornerà. Verrà a prendermi per portarmi insieme a lui e farmi vedere i sentieri che ha percorso in questi anni.»
Diceva spesso tra una visita e l’altra. Accompagnando l’affermazione con un sorriso immenso che le illuminava l’intero viso.
E lui la ritrovò così, una domenica mattina mentre la neve aveva iniziato a riempire i passi di montagna. La neve, nella sua placida clemenza, la portò via con sè.
Vito telefonò a Diana per avvisarla ed uscì per respirare una boccata d’aria; alla fine Carmelo aveva mantenuto la sua promessa. Gli piaceva pensare che i due amanti fossero insieme ora, da qualche parte tra i sentieri boscosi. Un verso basso di animale attirò la sua attenzione; dalla collina di fronte, sopra un sasso ben in vista comparvero due lupi. Pelo folto e manto grigio, occhi che sembravano tizzoni ardenti, portamento fiero e sicuro. Si sfregò gli occhi per vedere meglio ma quando tornò a fissare quel punto lo trovò vuoto.

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Cammarata2 • parte 5di6 – La leggenda del lupo grigio

«Il temporale ci sorprese improvviso, come capita spesso in montagna; ti appare una giornata piena di sole e l’attimo dopo le nuvole inghiottono l’azzurro, il buio divora la luce…»
Morena gustava il salame di Ficazza che Vito era sceso a comprare nel piccolo emporio più sotto e raccontava tra un boccone e l’altro con occhi vivaci e tono nostalgico «io avevo una caviglia messa male e lui, il mio Carmelo, perdeva sangue da tempo; il nemico ci aveva trovati con la rapidità di quel temporale. Recitavo le mie preghiere in silenzio mentre l’uomo mio nascondeva le smorfie di dolore dietro un sorriso d’amore che mi potesse rassicurare. Ero giovane ma la morte aveva sfiorato già il mio cammino tante volte: la morte in guerra ti scivola di fianco, cammina lungo il tuo stesso sentiero aspettando ansiosa di allungare la sua mano per afferrarti i capelli. Sapevo che non saremmo mai più discesi dalla montagna e raccomandavo le nostre anime al cielo.»

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La guardava seduto sulla sedia di fronte alla sua, Diana alla sinistra della nonna come a sorreggerne il peso. Lucida e precisa mentre narrava di anni talmente lontani che Vito non aveva vissuto nemmeno in fasce. Eppure si sentiva coinvolto. «E.. come siete riusciti a salvarvi, Morena?»
«Nel modo in cui si sono salvati tanti altri prima di noi; il cielo prestò in parte ascolto alle mie preghiere.»
«In parte?»
«Si per fortuna. Se veramente avesse teso entrambe le orecchie anzichè una sola, io sarei rimasta là: credendoci persi pregai che si salvasse almeno lui, perchè non sarei mai riuscita a vivere senza il mio uomo. Invece qualcuno decise diversamente; sulla collina qui di fronte, sopra un sasso ben in vista comparve un lupo. Era meraviglioso, persino una nuvola se ne accorse e permise ad un raggio di sole di filtrare per illuminarlo. Pelo folto e manto grigio, due occhi che sembravano tizzoni ardenti, il portamento fiero e sicuro. Si fermò per guardarci a lungo prima di riprendere la sua strada. Sulle sue tracce, poco dopo, arrivò un cacciatore. Riuscimmo ad attirare la sua attenzione e ci salvò entrambi chiamando altri a soccorrerci.»
«Vuoi riposare un po’ nonna?»
«No no.. piccolo sole mio, sto benissimo. E poi non sarebbe corretto andare a dormire mentre abbiamo un ospite.»
«Non si preoccupi, signora Morena. Stavo giusto per andare, ma tornerò ancora a trovarla. E.. quindi il lupo contribuì a permettere il vostro salvataggio.»
«Si, contribuì. Carmelo venne curato e rimase con me molto tempo prima di riprendere il suo compito tra i soldati. Ma non scorderò mai le sue prime parole giunti in salvo:» “Morena.. hai visto come ho visto io; il lupo grigio ci ha riportati sulla strada della vita.”

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Cammarata2 • parte 4di6 – La leggenda del lupo grigio

«Carmelo è il mio unico amore, signor Cammarata.»
Lo disse con una soavità nella voce da riuscire a far percepire l’emozione di una ragazzina adolescente. Perchè questo era per lei Carmelo; la passione di un’intera vita. Un sentimento che aveva superato le barriere del tempo, dimostrandosi più potente di qualsiasi bufera incontrata. Persino della bufera della guerra.
«Lui è qui nel Carso, ha portato le sue truppe lungo i pendii, le ha guidate per sfuggire al nemico. Le ha riportate a casa, soldato dopo soldato. Li ha riportati alle loro famiglie, perchè non ci fossero donne che soffrissero e non ci fossero figli senza padri.»

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«Capisco.. Carmelo deve essere stato davvero un uomo straordinario. Un uomo di quelli per cui andar fieri.»
«Non “è stato”, lui “è”.»
Si rivolse a Diana Sintuosi con uno sguardo tra l’interrogativo e il preoccupato, ma ricevette soltanto un cenno sconsolato di affermazione. Come gli capitava spesso doveva improvvisare, tessere un filo con la persona che aveva davanti, un legame di complicità e fiducia. E comprese in quel momento che era quanto la ragazza si attendeva da lui.
«Da quanto non assaggia un buon salame di Ficazza?»
«Un salame di… come quelli che fanno a Favignana?»
«Favignana, Trapani e San Cusumano. Gli unici posti dove ancora scendono le tonnare a mare. Si ricorda come vengono preparati, Morena?»
All’anziana si illuminò il viso; le rughe sembrarono ritirarsi in posti inaccessibili fino a pochi istanti prima «venivano prese le parti dorsali del tonno, quelle vicino alle spine. I pezzetti e le briciole per non buttare via niente. Condite con sale e pepe e pressate per quasi un mese dopo averle sistemate su delle tavole. Si lasciano asciugare e si prepara poi il salame che ha il colore della terra fertile.»
«Esattamente così, bravissima. Lo si prepara tra maggio e giugno, e lo si taglia a fette condito con olio e limone. Se ben conservato e avvolto con la carta plastificata può restare buono anche per un anno. E ho scoperto che ai piedi della sua bella casa, sotto il sentiero, c’è un ex pescatore che lo produce anche qui nel triestino. Le piacerebbe gustarne una fetta?»

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«Mi piacerebbe. Così, davanti ad una buona Ficazza di tonno, le potrò raccontare del lupo. Del lupo grigio.»
Durante il dialogo tra i due, Diana si era mantenuta silenziosa, in un atteggiamento speranzoso e di aspettativa. Aveva seguito attentamente come l’uomo condotto in quella casa da lei stessa mettesse a frutto la sua abilità nel parlare con le persone. Eppure, dopo le ultime parole della nonna, qualcosa era mutato nella sua espressione. Un velo cupo le era scivolato davanti agli occhi. Un cambiamento che Vito Cammarata aveva colto con sorpresa attribuendolo all’anticipazione che aveva mosso Morena; la storia del lupo grigio…


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Cammarata2 • parte 3di6 – La leggenda del lupo grigio

Vito Cammarata faticò tremendamente a tenere il passo di Diana Sintuosi. Nonostante l’aria fresca della montagna sudava terribilmente. Dava la colpa ai postumi della serata brava per non ammettere che fisicamente non poteva competere con la ragazza. Attraversarono alcuni ripidi sentieri una volta abbandonata l’auto, il paesaggio circostante si alternava tra pini neri, lande pietrose e prati. E persino, con sua grande sorpresa, l’emporio di un ex pescatore che vendeva Ficazza di tonno.
«Siamo arrivati, Vito. La casa di mia nonna si trova dietro questa ultima boscaglia… ma.. ci sono problemi?»
«No no… stavo giusto respirando.. puff.. a pieni polmoni.. puff..   il verde della riserva.» Rispose lui a corto di fiato.

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Diana trattenne a stento un sorriso divertito e superò l’ultimo tratto che ancora la separava dalla loro destinazione; un’abitazione in sasso, ricavata scavando in grossi blocchi di pietra come i montanari erano soliti fare nei secoli precedenti.
«Nonna, sono io. Sono passata per farti un salutino. Come stai?»
«Sto benissimo, mio piccolo sole. Come stavo ieri e prima di ieri. Mi vuoi presentare la persona che hai portato con te?» La donna seduta su una vecchia sedia a dondolo mosse a malapena il capo, diede l’impressione di aver avvertito l’arrivo della nipote semplicemente fiutandone l’odore trasportato dall’aria.
«Diana.. non mi avevi avvertito che tua nonna Morena è…»
«Non è il caso di parlarne ora, Vito…»
«Parlare di che cosa, nipote? Potete anche alzare il tono della voce. Non hai messo al corrente il tuo amico che questa vecchia carrozza ci vede meno di una talpa cieca? Coraggio, mica è la fine del mondo! Mi ci sono abituata a vedere con gli altri sensi ormai da anni. Allora? Me lo presenti il mio ospite?» La tempra dell’anziana sembrava prender forza dalla pietra che la circondava, o forse era lei stessa a tenerla salda. Vestiva di nero, con uno scialle di lana a proteggere la parte superiore del corpo, la pelle rugosa e rinsecchita, i capelli dei disordinati pennacchi candidi, un’età indefinita ed indefinibile. Sedeva di fianco ad un camino con dei pezzi di legno che bruciavano al calore di una fiamma invitante. Una fiamma che illuminava gli angoli dell’unico stanzone al piano terra che faceva da cucina e soggiorno, con al centro un massiccio tavolo in legno e alcune sedie sparse.
«Sono Vito Cammarata, signora Morena. Molto piacere di conoscerla. Sua nipote Diana mi ha parlato di lei a lungo.»
«Oh, quel suono. Inconfondibile. L’accento di Catania; unico. Erano anni che non lo sentivo. A parte quando mi parla Carmelo, naturalmente. Venga avanti signor Cammarata. Se il mio piccolo sole si è presa la briga di portarla davanti a questa povera vecchia ci devono essere dei buoni motivi.»
Si avvicinò all’anziana, chiedendosi quali altre questioni la cugina di Oscar gli avesse tenuto celate e chiedendosi chi mai fosse Carmelo, se la donna viveva sola…

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Cammarata2 • parte 2di6 – La leggenda del lupo grigio

Del cugino Oscar, Diana ostentava lo stesso sorriso. Disarmante. Quel tipo di espressione che, se usata a dovere, era in grado di sbloccare i chiavistelli più ruggini. Non si poteva definire una ragazza bellissima, piuttosto bassina ed un po’ tondeggiante, ma certamente un tipo. Una di quelle personalità solari che sprigionano e catturano affetto con naturalezza. Come fossero giunti all’argomento, Vito se lo stava ancora chiedendo. La conversazione, che aveva avuto seguito dopo una rapida doccia, si stava dimostrando decisamente gradevole.

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Benchè si dovesse attendere che il motivo della visita non poteva essere soltanto il riportargli il gatto, irragionevolmente desiderò fosse venuta solo per conoscerlo.
Ed invece si trattava anche di altro.
«Vorrebbe che facessi visita … a sua nonna?»
«Si.. lo so che può apparirle piuttosto strano. Però credo che potrebbe esserle di beneficio. Mia nonna ha origini catanesi, come lei. Ed ha sempre prestato molta attenzione alla voce dei propri conterranei.» Gli confermò con risolutezza. «Abita sul Carso, poco fuori Sgonico… io sarei di servizio in quella zona proprio tra poche ore. Potrei accompagnarla nella parte collinare. C’è da camminare per un pezzo a piedi, ma è un percorso poco impegnativo.»
Vito Cammarata lasciò trapelare una leggera incertezza. Più che dal carattere intraprendente di Diana, dalla prospettiva di un esercizio fisico imprevisto. Si sentiva fuori forma, e la birra della sera prima pareva appesantirgli ancora lo stomaco. Lo sforzo maggiore sarebbe stato però dirle di no.
«E’ da qualche tempo che non vado in quelle zone.. ma di cosa dovrei parlarle, esattamente? Ho difficoltà ad immaginarla come una sola visita di cortesia, Diana. Dico bene?»
«Mia nonna Morena è.. poco in salute. Si sta avvicinando l’inverno, commissario. Io ho tentato in svariati modi di convincerla a trascorrerlo da me. Senza successo. E, sinceramente, non so più che cosa tentare. Ho pensato che, forse, le parole di un altro siciliano estraneo alla famiglia le potessero smuovere ricordi piacevoli. E’ completamente isolata in quel posto, fatta eccezione per le mie visite. Che sarò costretta a limitare notevolmente con l’arrivo della neve…»
Abituato, per la propria professione, a carpire la natura delle persone, Vito ascoltò attentamente la guardia forestale. Nonostante la decisione e la franchezza con cui parlava, avvertiva qualcosa di indefinibile e di poco chiaro nelle sue parole. Ma lo tenne per sè.

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«So che, probabilmente, avrà altri impegni per la giornata. E mi scuso per esserle capitata così all’improvviso con una richiesta simile…»
«Diana, non ci sono problemi. E poi, Oscar non mi perdonerebbe mai di aver ignorato il sangue del suo sangue! Il tempo di prepararmi e possiamo metterci in viaggio. D’accordo?»
«E’ gentilissimo, commissario, davvero. Gliene sono molto grata!» Gli rispose sollevata. Lui, invece, sperava soltanto che lo stomaco reggesse con l’aiuto dell’aria montana…

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