E la Terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella, / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella.
Giovanni Pascoli, Il bolide, da Canti di Castelvecchio
Nel 1987, in pieno riflusso ideologico ed esistenziale, esce questo doloroso lavoro di Francesco De Gregori, quasi come un monito che avrà distolto più d’un ascoltatore attento dalla vacuità rilassata di quel periodo. Nove tracce di forte impatto emotivo, malinconiche, intimiste e di indiscussa sensibilità e poesia. La terra di nessuno è quel luogo in cui vive il grigio; è la dimensione intrappolata e intrappolante da cui si cerca di fuggire per rincorrere i colori.
Il cantautore romano lascia fluire con canto leggero, lo stato d’animo che lo attraversava in quel periodo, regalando emozioni sospese, soavi, quasi a voler testimoniare la condizione di chi anela nuovi orizzonti in cui liberarsi e liberare, parole diverse. Diverse parole che pesano come macigni: Ci sta una terra di nessuno / da qualche parte nel cuore / come un miraggio incastrato tra la noia e il dolore.

Terra di nessuno, nelle intenzioni del Cantastorie-Poeta, è una dolorosa invocazione contro l’indifferenza del suo tempo (a ben guardare estendibile, attraversando numerosi altri temi, anche all’oggi).
Il pilota di guerra, la terra di nessuno, il nero, Mimì e i matti; personaggi soli e inascoltati, in cerca di una mano amica e di un riscatto che ancora non arriva e forse mai arriverà.
Il più cupo e pessimista album di De Gregori, che qua e la cerca di insinuare la rivolta e la speranza, non riuscendo comunque (o non volendo) a lasciare molte vie possibili da percorrere.
Decisamente provocatorio per quegli anni, Terra di nessuno, forse proprio per questo, ottenne un ottimo successo commerciale, restando nella discografia del cantautore romano, come una delle opere più compiute. Personalmente, ho amato questo disco, arrivato a me in un tempo di formazione e riflessione.
Per chi ama i paesaggi interiori e la vena intimista viaggiante sulle corde della poesia.

Quasi a congedo del disco, De Gregori indaga con partecipazione (supportato da un maestoso arrangiamento musicale), le vicissitudini incomprese de I matti; anime disperse nello spazio e nel tempo, perse nella follia d’un incomprensibile (per tutti coloro che li guardano come fossero personaggi d’un altro mondo) incanto…
I matti
I matti vanno contenti, tra il campo e la ferrovia.
A caccia di grilli e serpenti, a caccia di grilli e serpenti.
I matti vanno contenti a guinzaglio della pazzia,
a caccia di grilli e serpenti, tra il campo e la ferrovia.
I matti non hanno più niente, intorno a loro più nessuna città,
anche se strillano chi li sente, anche se strillano che fa.
I matti vanno contenti, sull’orlo della normalità,
come stelle cadenti, nel mare della Tranquillità.
Trasportando grosse buste di plastica del peso totale del cuore,
piene di spazzatura e di silenzio, piene di freddo e rumore.
I matti non hanno il cuore o se ce l’hanno è sprecato,
è una caverna tutta nera.
I matti ancora lì a pensare a un treno mai arrivato
e a una moglie portata via da chissà quale bufera.
I matti senza la patente per camminare,
i matti tutta la vita, dentro la notte, chiusi a chiave.
I matti vanno contenti, fermano il traffico con la mano,
poi attraversano il mattino, con l’aiuto di un fiasco di vino.
Si fermano lunghe ore, a riposare, le ossa e le ali,
le ossa e le ali, e dentro alle chiese ci vanno a fumare,
centinaia di sigarette davanti all’altare.

[Autore articolo: Federico Magi • Fonte: http://www.lankelot.com]