Ondine, la ragazza del mare

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Per qualcuno potrà sembrare un azzardo, e non posso biasimarlo, però, per quanto mi riguarda, inserisco Ondine – il segreto del mare tra le pellicole fantasy che ho maggiormente amato sino a oggi. In effetti, la scheda del film presente su wikipedia, non mi smentisce del tutto: il lavoro di Neil Jordan, con protagonisti Colin Farrell e Alicja Bachleda, è annoverato tra il genere drammatico e fantastico. Sebbene possa rientrare nel fantasy soltanto grazie a un’ambientazione incantevole, e ad un paio di situazioni prive di spiegazione logica.
Amo i simbolismi, le metafore, le introversioni e la delicatezza. Nella scrittura, come nel cinema. Ondine è una pellicola che rispecchia molte di queste caratteristiche: una fiaba reale, una realtà nella fiaba. Syracuse, soprannominato Cyrcus, un pescatore che vive sulle coste di un’Irlanda suggestiva, è un ex alcolista che faceva il clown. Ha una figlia, Annie, gravemente ammalata ai reni, che dimostra la straordinaria capacità sognante di tutti i bambini. Tra loro, pescata dalla rete di Cyrcus, arriva Ondine, una ragazza avvolta nel mistero, sopravvissuta inspiegabilmente all’annegamento. Annie però una spiegazione ce l’ha: Ondine è una selkie, un personaggio uscito dalle leggende, appartenente al mare, e che diventa umano quando esce dall’acqua. Cyrcus, incredulo, inizia a raccogliere nella rete una quantità enorme di pesci. Perché, in barca, porta con sé Ondine e lei canta al mare.
La realtà, come sempre, è diversa dalle fiabe. Il regista Neil Jordan, autore anche della sceneggiatura, lo racconta senza intaccare la straordinaria atmosfera del suo film; privo di effetti speciali, dal ritmo lento e carezzevole, Ondine è pervaso di una magia che fa bene al cuore, di quella vera: senza bacchette magiche, offre uno spaccato di umanità che vuole ancora credere alla redenzione.
Girato nella penisola Beara, nel sud-ovest dell’Irlanda, il film riesce, in modo molto sottile, a far credere inizialmente che Ondine sia una ragazza tratta in salvo dal mare. Soltanto in seguito, con lo scorrere delle immagini e delle situazioni venutesi a creare, lo spettatore sospetta la ragazza di una natura diversa, rispetto a quanto visto nelle sequenze del suo salvataggio. Ci troviamo davanti a una fiaba oppure a un mistero dalle basi molto umane? Non lo svelo. Non per guastare la suspense della pellicola a chi deciderà di vederla, o rivederla, dopo queste mie righe. Ma proprio perché, anche davanti alla conclusione del film, alcuni quesiti restano piacevolmente irrisolti. Lo spettatore ha la responsabilità di credere a una versione realistica o a una versione fantasiosa, grazie alla propria esperienza e sensibilità. Molti sono comunque i messaggi lanciati dal regista Jordan: il rapporto tra la solitudine dell’uomo di fronte all’immenso mistero del mare, la necessità ad armarsi del coraggio e della volontà per superare l’infelicità, il bisogno di avere fede nell’amore per permettere a questa straordinaria forza di crescere e avvolgerci.
Annie: Non mi piace affatto.
Syracuse: Lei canta per i pesci e li cattura.
Annie: Quindi qual è la storia?
Syracuse: C’era una volta…

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La bella e la bestia

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La maggior parte delle fiabe ha un’origine temporale precisa. È possibile risalire, abbastanza velocemente grazie alla rete, agli autori originali e all’anno della pubblicazione. Non è così per una delle più famose, che ha ispirato commedie, spettacoli teatrali, film e telefilm: La bella e la bestia.
Ciò perché questa fiaba, per le potenzialità che esprime, si è prestata a numerose varianti. Da La jeune américaine, et les contes marins, fino alla versione più conosciuta e popolare della scrittrice francese Jeanne-Marie Leprince de Beaumont, che la utilizzò nell’opera Magasin des enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et plusieurs de ses élèves. Altri invece ne attribuiscono l’origine al filosofo romano Apuleio, che l’avrebbe utilizzata per il suo Amore e Psiche. Ma, se le origini de La bella e la bestia si perdono nel tempo, i suoi adattamenti risalgono sino a oggi – e probabilmente continueranno per gli anni a venire -.
Da ricordare, uscito nel 2014, è almeno la pellicola francese omonima che ha nei suoi interpreti Vincent Cassel, nel ruolo della bestia, e Léa Seydoux, nel ruolo della bella. Suggestivo sul piano fotografico, scenografico e dei costumi, il film ambientato nel 1810 propone una delle versioni più raffinate della celebre fiaba: in questo caso è il fantasy fiabesco dai connotati storici a padroneggiare. Visivamente meno incisivo, anche perché realizzato con minori mezzi e budget, è la serie televisiva La bella e la bestia con Linda Hamilton, protagonista dei primi due Terminator. Il telefilm ha il merito di proporre la versione della fiaba in chiave moderna, attingendo all’urban fantasy. Nell’adattamento con la Hamilton, ci troviamo a New York e la bestia Vincent vive, con volto leonino, nei bassifondi della città. Ottimo il tentativo di affrontare le diversità sociali, perché Catherine, la bella, ricopre il ruolo di brillante avvocato. Romanticismo, analisi psicologiche e conflitti sociali rappresentano la chiave di visione della serie, in Italia molto apprezzata sul finire degli anni ottanta ma trasmessa solo per la prima stagione, delle tre disponibili. Il risultato è però così interessante da non finire dimenticato: nel 2012 prende il via Beauty and the Beast, liberamente ispirata proprio a quella serie. Il nuovo telefilm non solo sfrutta ancora il genere urban fantasy, diventato negli ultimi anni popolare e sempre più seguito, ma investe anche in volti particolarmente apprezzati dai teenager. La protagonista femminile Kristin Kreuk arriva dal successo di Smallville, mentre il protagonista maschile Jay Ryan rispetta i canoni fisici visti in Arrow e nel nuovo Thor. Questa volta, Catherine è un detective della omicidi e Vincent un ex militare delle forze speciali, apparentemente deceduto in Afghanistan. Lui salva la bella durante l’omicidio della madre di lei e vive, in seguito, un profondo conflitto interiore accompagnato da una storia d’amore singolare con Catherine stessa. Figlio dei nuovi prodotti televisivi, all’insegna di un ritmo serrato e dei canoni del feuilleton francese, nella sua prima stagione Beauty and the Best è molto intrigante, contaminato anche dal paranormal e dal dark fantasy.
Il fatto è che è difficile restare sempre al di qua del confine, anche se facciamo del nostro meglio. In effetti, in quella occasione avevo dimenticato che se tieni a una persona devi fare attenzione anche ai suoi confini. Come ho già detto, essere un detective significa tracciare dei confini, ma essere umani, secondo me, significa sapere come e quando oltrepassarli insieme! – Catherine -.

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Il corpo di Jennifer

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Il cinema horror non è l’unico genere che gode del privilegio della categoria B-Movie. Queste pellicole, nate in America negli anni trenta, venivano girate in pochi giorni, con pochi mezzi e con un budget ridotto all’osso. Venne inventato per contrastare il calo di spettatori nelle sale cinematografiche: si offriva, con il prezzo di un solo biglietto, la visione di due film. Negli anni sessanta fu Roger Corman il simbolo di questo filone – grazie ai lavori ispirati ai racconti di Edgard Allan Poe con l’interpretazione di Vincent Price – affiancato da Ed Wood. Quest’ultimo, classificato dai critici come il peggior regista di tutti i tempi. Ancora oggi, per giustificare il flop di qualche nuova pellicola, dovuto agli scarsi spettatori e/o a una feroce critica, viene scomodato il termine B-Movie. Jennifer’s Body, lavoro del 2009 della regista Karyn Kusama, di genere fantasy e contaminazioni urban/dark/paranormal, secondo alcuni esperti, potrebbe benissimo appartenere al filone dei Corman & Wood. Il paragone, a mio giudizio, è molto ingeneroso. Perché Il corpo di Jennifer vanta la presenza di due delle più celebrate attrici del nuovo millennio: Megan Fox e Amanda Seyfried. La prima, di origini francesi, irlandesi e cherokee, ha conquistato più volte la nomina di donna più sexy del mondo, e il ruolo sembra essere cucito apposta per lei. Per Amanda nutro un particolare affetto, l’ho scoperta in Veronica Mars e seguita in altri interessanti lavori: il suo fascino ha qualcosa di particolare ed è perfetto per il genere fantasy – nel mio immaginario, riveste il ruolo di Caprice -. Sceneggiatura e soggetto sono della brillante Diablo Cody, che per Juno ha vinto un Oscar e la nomina al Golden Globe. Nel film, Megan Fox (Jennifer) è la classica ragazza desiderata da tutti gli studenti della scuola e divide un rapporto di stretta amicizia con Amanda (Needy), che conosce sin dall’infanzia. Needy, vittima di un’enorme ammirazione per Jennifer è succube della personalità di quest’ultima. Tanto che, quando la ragazza più ambita della scuola finisce vittima di un rito satanico, per mano di una band rock, il mondo di Needy inizia a crollare. Jennifer uccide per sopravvivere e per placare il demone che l’ha impossessata, costringe l’amica d’infanzia a prendere una posizione, sino a quel momento, impensabile: contrastarla.
A differenza delle numerose critiche, io ho apprezzato Jennifer’s Body. Fotografia e scenografia sono degne di qualsiasi altro Dark Fantasy. La presenza del romanticismo si avverte ed è molto meno stucchevole di pellicole di gran lunga più celebrate. Le problematiche adolescenziali, tema che mi è particolarmente caro, sono ottimamente rappresentate dalla brava Seyfried. Per quanto l’autrice Diablo Cody non dia il meglio di sé, propone comunque una sceneggiatura diversa, sempre in bilico tra ironia e sarcasmo, abile nei doppi sensi. Un piccolo esempio è nella rappresentazione sociale dei nostri giorni, quando Needy afferma una sua precisa testimonianza oculare ed è smentita da una studentessa: «Non ti credo. Stai mentendo: io l’ho letto su Wikipedia!»

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Alice fantasy per l’infanzia?

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Quando cominciai a scrivere il racconto L’errante cavaliere, pubblicato poi su questo blog nel gennaio del 2007, lo feci quale omaggio alle letture di almeno due dei miei autori preferiti di sempre: Terry Brooks e Robert Ervin Howard. Ho affermato in varie occasioni di nutrire particolare affetto per lo scrittore della saga di Shannara – ciclo fantasy costituito, sino a oggi, da oltre venti libri -. Raramente, se non negli ultimi tempi, ho invece citato Howard, creatore di Conan il barbaro e Solomon Kane. Non è un caso. Il primo pubblica ogni anno almeno una nuova opera, il secondo è scomparso ormai da alcuni decenni. Da sempre, pur senza nulla togliere allo sconfinato valore dei classici, prediligo letture moderne nel linguaggio e nella rappresentazione del tessuto sociale. In questo, Brooks è molto abile: tra i suoi meriti c’è senza dubbio quello di aver rilanciato un genere, il fantasy, offrendo spunti narrativi a decine di altri scrittori. Ha inoltre contribuito, con Il demone, nel 1997, a porre le basi per l’urban fantasy e per il successo mondiale di Harry Potter, uscito proprio nello stesso anno. Però, se devo dare uno sguardo alle opere del passato, capostipite tra gli autori amati nell’infanzia, non può esserci che Lewis Carroll, padre di Alice nel Paese delle Meraviglie. Alice è un personaggio strano, capace di raccogliere tanta simpatia quanta antipatia. Il motivo non lo ho mai analizzato veramente. Posso soltanto dire che il mondo della bionda ragazzina di Carroll mi affascina e rapisce. I colori, i personaggi strambi e pittoreschi, i poemetti e le canzoni: è un agglomerato fantasy di allegria e spensieratezza. Questa è stata la genialità dello scrittore britannico: proporre un libro di intrattenimento quasi goliardico che assume un significato ben diverso per gli adulti. Nella favola si mischia sogno e realtà, spazio e tempo, allegria e dramma proprio come accade nella vita reale. Un quotidiano che, spesso, tende a metterci alla prova spingendoci al limite. Del resto, in questo, lo Stregatto di Alice è molto chiaro quando afferma:
«Siamo tutti matti qui. Io sono matto, tu sei matta.»
«E da cosa giudichi che io sono matta?» ­
«Devi esserlo, perché altrimenti non saresti qui».
Alice nel Paese delle Meraviglie è stato adattato in opere teatrali e cinematografiche svariate volte. Emblema dello spirito voluto da Lewis Carroll, nelle pellicole più recenti, è senza dubbio il lavoro di Tim Burton, Alice in Wonderland, dove la ragazza, ormai diciannovenne, affronta le problematiche del passaggio tra ultima adolescenza ed età adulta. Nel periodo in cui il senso dello stupore è incrinato dal grigiore che verrà. Benché fortemente criticato, ritenuto uno dei momenti meno incisivi nella carriera di Burton, il film prova a spingersi oltre tentando di mostrare la risposta alla domanda che ognuno, almeno una volta nella vita, si pone: cosa accade ai personaggi, quando le favole finiscono?
La gente vede la follia nella mia colorata vivacità e non riesce a vedere la pazzia nella loro noiosa normalità!
– Il Cappellaio matto -.

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