Non usava una chitarra o una fisarmonica per accompagnare la narrazione, eppure amava definirsi un cantastorie. Uno di quei personaggi che girovagavano nelle piazze per raccontare storie rielaborate e antiche. Non usava un cartellone dove veniva raffigurato il racconto che narrava, ma le pagine dei libri. E le offerte dei lettori erano fisse, indicate con precisione dai prezzi sulla copertina. Il cantastorie era bravo in quel che faceva; se la bravura poteva essere misurata dai suoi guadagni. Iniziò a permettersi una casa più grande, dopo aver abbandonato l’angusto buco di quattro pareti e due stanze in cui i suoi scritti cominciarono a prendere forma e sostanza. Dalla casa più grande passò a una villa di periferia. Poi a una villa di campagna ancora più grande, con piscina e servitù annesse. Con macchine sempre più lunghe e di cilindrata maggiore. Come ci fosse riuscito non gli era del tutto chiaro; qualcuno parlava di talento, altri di semplice fortuna, qualcun altro di entrambi, altri ancora di occulti intrallazzi con persone in alti ambiti della società. Il cantastorie non aveva mai rivelato la verità a nessuno, probabilmente lui stesso non la conosceva nemmeno. Era però consapevole di un fatto; molti si erano prodigati per compiere il suo stesso tragitto e raggiungere agi e comodità. E avevano fallito. Forse anche per questo (ma non per questo soltanto), il cantastorie decise, un giorno, di praticare un taglio netto e deciso con quell’esistenza. Mise in vendita la villa e le automobili, congedò la servitù con una buona uscita e lasciò il paese. Si diresse a nord, tra i monti ricoperti di un candido strato bianco. Gli stessi monti che, diverse volte, aveva descritto con perizia nelle sue storie, pur senza mai averli visti da vicino. Lo avevano considerato un pazzo, naturalmente. I più generosi avevano definito il suo gesto come l’atto estremo di uno scrittore eccentrico. Separarsi dalle comodità e dallo status di una persona benestante, per seppellirsi sopra le cime era definito, dagli altri, gesto ingeneroso e di alto tradimento verso la propria ricchezza. Ma l’opinione delle persone che lo attorniavano aveva smesso di influire sulle sue ragioni già da tempo. Si trattava, perlopiù, di sanguisughe; uomini e donne desiderose di prolungare il più a lungo possibile le feste e le mance che era solito elargire. Una massa umana oscura e informe disposta a soffocarlo ogni altro giorno. Probabilmente, la destinazione verso un ambiente circondato dal bianco più totale, era anche un bisogno inconscio di purezza; la stessa perduta via via che il denaro aumentava. Il cantastorie era giunto al punto di odiare il proprio strumento. Ormai non “componeva” da mesi e, sebbene il suo animo si fosse sollevato di un poco, la tastiera del suo portatile poteva benissimo occupare il posto di una tana di serpenti velenosi. L’effetto era il medesimo. Ogni tanto, quando gli capitava di incontrare dei bambini nei paesini più a valle o nella stessa Aspen in cui si era accasato, gli sembrava di sentire lo stesso impeto che gli aveva aperto la strada verso la scrittura e il successo. Ma era un fuoco fatuo. Quando tornava tra le nevi e tra le quattro pareti del confortevole chalet, tutto finiva. E la musica non tornò mai a frequentare i suoi orizzonti, fino al momento in cui incontrò il bambino dallo sguardo sognante. Avvenne per caso, in una palestra a molte miglia di distanza. Anche quel giorno la neve lo seguì, disegnando il suo percorso. Come se lo strascico bianco si fosse, in qualche modo, immerso nelle radici della sua stessa esistenza. Il piccolo Steve Travel, scoperti i suoi trascorsi di narratore, chiese: “mi scrivi una storia?”
Solo allora, tornato ad Aspen, il cantastorie si sedette davanti al suo portatile, lo aprì e iniziò a digitare; “c’era una volta…”
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Autore testi: Keypaxx © Copyright per questo testo dal 2015. Tutti i diritti riservati.
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