Il cantastorie nella neve

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Non usava una chitarra o una fisarmonica per accompagnare la narrazione, eppure amava definirsi un cantastorie. Uno di quei personaggi che girovagavano nelle piazze per raccontare storie rielaborate e antiche. Non usava un cartellone dove veniva raffigurato il racconto che narrava, ma le pagine dei libri. E le offerte dei lettori erano fisse, indicate con precisione dai prezzi sulla copertina. Il cantastorie era bravo in quel che faceva; se la bravura poteva essere misurata dai suoi guadagni. Iniziò a permettersi una casa più grande, dopo aver abbandonato l’angusto buco di quattro pareti e due stanze in cui i suoi scritti cominciarono a prendere forma e sostanza. Dalla casa più grande passò a una villa di periferia. Poi a una villa di campagna ancora più grande, con piscina e servitù annesse. Con macchine sempre più lunghe e di cilindrata maggiore. Come ci fosse riuscito non gli era del tutto chiaro; qualcuno parlava di talento, altri di semplice fortuna, qualcun altro di entrambi, altri ancora di occulti intrallazzi con persone in alti ambiti della società. Il cantastorie non aveva mai rivelato la verità a nessuno, probabilmente lui stesso non la conosceva nemmeno. Era però consapevole di un fatto; molti si erano prodigati per compiere il suo stesso tragitto e raggiungere agi e comodità. E avevano fallito. Forse anche per questo (ma non per questo soltanto), il cantastorie decise, un giorno, di praticare un taglio netto e deciso con quell’esistenza. Mise in vendita la villa e le automobili, congedò la servitù con una buona uscita e lasciò il paese. Si diresse a nord, tra i monti ricoperti di un candido strato bianco. Gli stessi monti che, diverse volte, aveva descritto con perizia nelle sue storie, pur senza mai averli visti da vicino. Lo avevano considerato un pazzo, naturalmente. I più generosi avevano definito il suo gesto come l’atto estremo di uno scrittore eccentrico. Separarsi dalle comodità e dallo status di una persona benestante, per seppellirsi sopra le cime era definito, dagli altri, gesto ingeneroso e di alto tradimento verso la propria ricchezza. Ma l’opinione delle persone che lo attorniavano aveva smesso di influire sulle sue ragioni già da tempo. Si trattava, perlopiù, di sanguisughe; uomini e donne desiderose di prolungare il più a lungo possibile le feste e le mance che era solito elargire. Una massa umana oscura e informe disposta a soffocarlo ogni altro giorno. Probabilmente, la destinazione verso un ambiente circondato dal bianco più totale, era anche un bisogno inconscio di purezza; la stessa perduta via via che il denaro aumentava. Il cantastorie era giunto al punto di odiare il proprio strumento. Ormai non “componeva” da mesi e, sebbene il suo animo si fosse sollevato di un poco, la tastiera del suo portatile poteva benissimo occupare il posto di una tana di serpenti velenosi. L’effetto era il medesimo. Ogni tanto, quando gli capitava di incontrare dei bambini nei paesini più a valle o nella stessa Aspen in cui si era accasato, gli sembrava di sentire lo stesso impeto che gli aveva aperto la strada verso la scrittura e il successo. Ma era un fuoco fatuo. Quando tornava tra le nevi e tra le quattro pareti del confortevole chalet, tutto finiva. E la musica non tornò mai a frequentare i suoi orizzonti, fino al momento in cui incontrò il bambino dallo sguardo sognante. Avvenne per caso, in una palestra a molte miglia di distanza. Anche quel giorno la neve lo seguì, disegnando il suo percorso. Come se lo strascico bianco si fosse, in qualche modo, immerso nelle radici della sua stessa esistenza. Il piccolo Steve Travel, scoperti i suoi trascorsi di narratore, chiese: “mi scrivi una storia?”
Solo allora, tornato ad Aspen, il cantastorie si sedette davanti al suo portatile, lo aprì e iniziò a digitare; “c’era una volta…”

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Una vita nella neve

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Lo spaccalegna riprese in mano la sua fedele compagna di lavoro. In tutti quegli anni, ed erano ormai tanti, non lo aveva mai tradito. Richiedeva una minima cura; di essere affilata prima di ogni nuovo utilizzo, a volte anche sgrassata e ripulita con uno straccio. Ma, il suo compito, lo svolgeva sempre con la medesima affidabilità. Non era come le persone che aveva conosciuto. Quelle andavano e venivano, come i cambi di stagione. L’ascia no; se sapevi da che parte prenderla poteva tenerti compagnia per un tempo incalcolabile. Una volta un nipote alla lontana, prima di abbandonare Aspen in cerca di un futuro altrove, gli aveva chiesto per quale motivo si ostinasse a rimandare la pensione. Lo spaccalegna non aveva risposto, si era limitato ad abbozzare un sorriso comprensivo, perlopiù una ferita a mezzaluna nella carne. Una tra le altre. La domanda non era inusuale; prima o poi incrociava sempre qualcuno che cercava di soddisfare la propria curiosità porgendogliela. A volte un visitatore di passaggio, altre un parente di cui ricordava a malapena l’esistenza. E la risposta era sempre la stessa. Diversamente non poteva essere; sapeva di apparire una specie di folle agli occhi delle persone. La schiena curva e dolorante, le mani callose e generose di cicatrici, il fiato sempre più corto; come altrimenti poteva sembrare se non una sorta di pazzoide? Ma, in fondo, quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Che la gente pensasse di lui ciò che preferiva. Non erano tutti uguali, certo, qualcuno lo comprendeva (almeno in parte); si trattava però dei vecchi del paese. Quelli che lo avevano visto impugnare una scure appena raggiunta l’età per farlo. Quelli che sapevano l’avrebbe lasciata il giorno stesso in cui non sarebbe più potuto uscire di casa. Del resto per lui, sebbene l’età facesse presupporre il contrario, spaccare legna attorniato dalla neve era un impegno meno gravoso di quanto potesse sembrare. E, nei giorni più storti della sua esistenza, perché anche lo spaccalegna nonostante tutto ne aveva, amava pensare: “qualcuno dovrà pur farlo, no? Se non io, chi altri?” ma si trattava di quesiti pregni di retorica, atti a darsi una spinta qualora ne avvertisse il bisogno. In realtà amava il suo lavoro. Non si sarebbe allontanato da Aspen per nessuna ragione al mondo. La sua famiglia si era trasferita in quel luogo a causa dell’attività del padre, commerciante in legna. Il genitore era abile con le parole, lui lo era di più con le mani. Così aveva preferito spaccare la legna e delegarne la vendita a un cugino di quarto grado del padre. Naturalmente, trattandosi di un mestiere comunque legato al commercio, ogni tanto gli capitava, occasionalmente, di piazzarla a qualche acquirente. Caricava la slitta a motore con i pezzi già a misura e trainava il carico presso l’abitazione che ne faceva richiesta. Non era un aspetto che disprezzava, dopotutto.
Anzi, gli permetteva di mantenere il contatto con il resto della vallata, fuori dal perimetro della sua piccola bottega artigianale.
Batteva le piste più frequentate, seguendo le scie lasciate dagli pneumatici e dalle catene che pestavano la neve al centro delle strade. Qualche volta si doveva spingere anche oltre, salendo per colli ancora candidi, costringendo il piccolo motore della slitta a compiere autentici virtuosismi meccanici, attraversando le piste abituali degli stambecchi. Tra i compratori diretti ne contava almeno uno che attendeva con piacere. Arrivava spesso di primo mattino, prima di compiere gli abituali giri presso le case dei malati. E, quasi sempre, riusciva a sorprenderlo. Non era per quello che diceva, e neppure per quello che faceva. La sorpresa consisteva in un atteggiamento costantemente positivo verso la vita (lei, che di vite interrotte doveva averne contate molte). Tra le poche a non avergli mai chiesto per quanto tempo ancora si fosse dedicato a spaccar legna. Ed era lei, in questo caso, a regalargli un sorriso radioso. Si chiamava May Organa.
A ogni nuovo incontro, lo spaccalegna rinnovava con vigore il suo impegno. Dimenticando la schiena, le cicatrici, il fiato corto.

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La scommessa nella neve


Il tempo stava ormai per scadere. L’uomo, ben consapevole della propria forza nel gioco, già si pregustava l’incasso stabilito. Ne era certo sin dal principio e si stupiva di come, al mondo, potessero esserci ancora persone tanto ingenue. Aveva sentito parlare i due amici per caso, dentro un anonimo bar situato ai piedi del monte. Sembravano talmente convinti nelle loro esternazioni che sarebbe stato un delitto non confrontarsi con le convinzioni, prive di fondamento, che andavano cianciando. Era un incallito giocatore da anni e adorava il brivido del rischio. Non gli importava mettere le mani su grosse somme di moneta sonante. Il denaro, per lui, aveva un valore estremamente relativo; ciò che davvero gli interessava era il fremito provocato dalla giocata. Lo avvertiva scorrere lungo la spina dorsale, se ne sentiva avvolto, riscaldato e cullato. In modo tale da impedire alla neve tutta intorno di intaccarlo minimamente. Era finito in mezzo a quelle cime ricoperte da un manto candido ed eterno soltanto per vincere la scommessa. E non intendeva desistere da questo scopo per nessuna ragione al mondo. L’uomo, in definitiva, non credeva in null’altro al di fuori di se stesso, in un’alchimia traboccante di narcisismo ed egoismo. Lo spettacolo naturale del tramonto, immerso in una atmosfera degna delle fiabe dei fratelli Grimm, era nulla più di una condizione necessaria allo scoccare dell’ultima ora di permanenza tra le nevi. Si accese l’ennesima sigaretta, gustando il tabacco con boccate ampie e profonde, contrastando l’aria cristallina con il veleno fumoso che lentamente gli corrodeva i polmoni. Ridacchiò ancora, abbinando il suono soffocato alla nuova bionda che si portava con consumata consuetudine alle labbra. “Non ho mai vinto in maniera così facile” pensò “forse, per onestà, dovrei ridare a quei due una nuova occasione per rifarsi”. Denigrava la coppia di giovani con la stessa facilità con cui gettava via il milionesimo mozzicone, a formare un piccolo foro scuro dentro la coltre bianca. Guardò nuovamente l’orologio, nel vano tentativo di sconfiggere la noia crescente; erano trascorsi soltanto una manciata di minuti da quando aveva controllato l’esattezza dell’orario. Si strinse nelle spalle e appoggiò la schiena contro il fuoristrada su cui aveva viaggiato per portarsi sino a quel punto; poco più in alto si stagliava Aspen. Il paesino montano, secondo i due giovani della scommessa, in cui possono accadere cose tali da cambiare la vita delle persone. Per sempre.
“Si, certamente” ghignò, provocandosi persino un violento colpo di tosse, costringendolo a piegarsi di lato, mentre l’ultima boccata di fumo ancora gli sfiorava la bocca. Quando si rimise dritto si accorse che si era levato il vento. Le folate stavano arrivando proprio da Aspen (?). Come se la vetta della montagna avesse deciso di trafiggerlo passando in mezzo alle case, trascinando lungo la sua corsa raffiche di gelo e lamenti lontani.
“Che diavolo sta succedendo?” si chiese a fior di labbra. La figura prese forma con il calare dell’improvviso turbine, quasi a trarne consistenza. Era alta, molto più della media cui era abituato. La figura lo osservava, placida eppure implacabile, la pelle bruciata e rossiccia. Gli occhi (quegli occhi) in grado di vedergli dentro, in grado di vedergli attraverso. Quando, al termine dell’ora stabilita, i due giovani lo raggiunsero, l’uomo non ridacchiava più. Mise il pacchetto di sigarette in tasca e si strinse nel suo cappotto termico. Iniziava a percepire freddo, per la prima volta, la febbre del gioco sembrava averlo lasciato come assalita da un’intera scatola di antibiotici. Quel che era accaduto lo tenne per sè o, per la precisione, ne divise il segreto con un’altro; l’unico testimone alla maturazione della sua decisione di dichiararsi perdente, Aspen.

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Il giorno in cui il cielo cadde nella neve


Lo slittino procedeva a velocità sostenuta falciando le corsie immerse nella neve, la stessa che i Siberian Husky aggredivano con consumata abilità macinando chilometri su chilometri. Eppure, quel mattino, i cani si dimostrarono più nervosi del solito. Quasi a volersi allontanare dal paesaggio incantanto, senza approfittare nemmeno della consueta pausa di riposo che il conducente dispensava loro ad ogni corsa. Il musher aveva la massima cura dei suoi Siberian Husky. Sapeva di doversi affidare ai suoi amici a quattro zampe e amava ricambiare tale responsabilità con il più profondo rispetto. Era un uomo dalla indole sportiva, ma anche di una certa cultura; aveva studiato a lungo il fenomeno, partendo dalla mitologia nordica, secondo cui, si narrava, le valchirie rivestite di splendide armature riflettenti, cavalcavano nel cielo dando origine all’aurora boreale. Il musher si era informato per mesi e, stando alle notizie raccolte, c’erano fortissime probabilità che quel giorno avrebbe veduto uno dei fenomeni più affascinanti esistenti in natura. L’eccitazione era a mille, e i fedeli alleati di sempre, i suoi amici a quattro zampe, in quell’occasione non gli furono di particolare aiuto. Giunse imprevista; un momento prima stava guidando la slitta, un momento dopo una coltre immensa di bianco stava riversandosi sopra di lui. Per la prima volta da quando correva, il musher era stato tradito dalla neve stessa. Dove era finita la sua slitta? dove erano finiti i suoi cani? Attorno avvertiva soltanto un forte e opprimente freddo; il cielo era sparito. Non c’erano più i riflessi verdastri che in lontananza gli promettevano la prima aurora della sua vita vista da vicino, si rovesciarono in pochi istanti; sottosopra. In un vortice circolare. La slavina rubò il verde e l’azzurro, lasciando al loro posto un globale e gelido nero.
Era ancora vivo e cosciente? supponeva di si. Ma doveva fare qualcosa. Doveva riuscire a liberarsi da quell’abbraccio stretto e pastosamente cedevole. Cercò di muoversi, ma gli sembrava di stare per affogare dentro delle bianche (immaginava, poichè ai suoi occhi compariva solo una tonalità scura simile all’inchiostro di seppia) sabbie mobili. Non riusciva a fare il minimo progresso. Da quanto stava ormai là sotto? un minuto? un’ora? una vita? il senso delle cose perdeva via via significato. Così come la sua lucidità. Presto non avrebbe potuto fare più nulla.
«Ehi… ehi… ehi…».
Sentiva la voce. Un suono per nulla familiare. Come poteva parlare se aveva la neve dentro la bocca? Poi, in uno degli ultimi barlumi di presenza, comprese; non si trattava della sua voce. C’era qualcuno là fuori. «Ehi… ehi… ehi… mi puoi sentire?» ripetè la voce estranea. Poi sentì anche altro. Rumori. Un mulinello continuo. Anzi, più di uno. Qualcuno. Qualcosa. Stavano scavando. Dapprima cominciò a filtrare un debole foro bianco. Quindi il foro prese ad allargarsi. C’erano mani. C’erano zampe. I Siberian Husky lo stavano liberando aiutando lo sconosciuto soccorritore. «Mi senti?… mi puoi sentire? coraggio, sei in salvo, adesso, coraggio…». La voce, collegata a un volto mai visto ma dai lineamenti sereni e rassicuranti, si smorzò in uno sforzo; lo stava tirando fuori dalla slavina. «È una fortuna che io stessi passando di qui per andare ad Aspen…» borbottò l’uomo mentre, freneticamente, cercava con le mani, ora libere dai guanti, di scuotere il musher. I cani presero a leccargli il viso e soltanto allora iniziò a mugugnare ricordandosi di essere vivo. «Sia benedetto il cielo! come ti senti? puoi muoverti?» sopra di loro, finalmente, l’aurora boreale tratteggiò la cupola terrestre con sfumature degne di un quadro visionario «questo… questo è il giorno in cui il cielo è caduto nella neve… è vero?». Padre Wallace gli rispose con un sorriso e lo aiutò a rialzarsi.

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Il ladro che rubò nella neve


Per il ladro, quella scelta rappresentava un sentiero obbligato. Il negozio era il solo posto possibile per recuperare quanto gli serviva.
«Vecchio, stupido, pazzo. È mai possibile lasciare l’uscio aperto con i tempi che corrono?» borbottò, rimproverando il proprietario assente. Subito dopo soffocò una breve risata; “ma che razza di pensieri mi passano per la testa? credo di essere in una grande città? bah… sto soltanto in mezzo ai monti. Ricoperti da questa maledetta e perenne neve!” meditò.
Si trattava di entrare e uscire in breve tempo. Al massimo dieci, forse quindici minuti. In fondo non era la prima volta che lo faceva. Conosceva bene quel negozio sia dall’esterno che dall’interno. Lo aveva visitato molte altre volte prima e sempre per le stesse motivazioni; riuscire a procurarsi le cose indispensabili. Non era sempre stato così, il ladro aveva vissuto a lungo una vita diversa. Una vita in cui entrare di soppiatto dentro una proprietà altrui era nemmeno l’ultimo dei suoi pensieri. Una vita in cui era rispettato per il suo lavoro quotidiano, fatto di sudore e fatica, ma anche di grandi soddisfazioni. Grazie a una moglie premurosa ad attenderlo tra le mura di una modesta ma accogliente casa, e di un figlio piccolo destinato a crescere in fretta. Poi tutto cambiò; un giorno come gli altri, ma un giorno diverso sino a dentro le viscere, arrivò la recessione. La piccola fabbrica di legname in grado di dargli il lavoro quotidiano chiuse, lasciandolo disoccupato, ormai cinquantenne, insieme ad altri conoscenti (nel piccolo paesino si conoscevano tutti). Naturalmente non si perse d’animo, il ladro era sicuramente un uomo poco incline a ricominciare da capo dopo essere arrivato alla mezza età, ma era comunque un uomo in grado di adattarsi per il bene della famiglia. Prese a girare ogni altra piccola bottega artigiana dei paraggi, arrivando però sempre un attimo dopo dei suoi ex colleghi di lavoro. Così iniziò a darsi da fare per entrare in altri settori; “non potrò fare ancora il falegname? e che diamine! ho due braccia e due mani: posso usarle per spalare la neve, se sarà necessario”, si convinse. Ma il tempo, a volte alleato e altre avversario, decise di scorrere impietosamente per lui. Se possedeva pazienza e volontà incrollabili, altrettanto non poteva dirsi per la giovane moglie. Nostalgica di una vita cittadina, che l’aveva vista nascere e crescere, se ne andò in una notte di settembre. Il giorno prima del compleanno del ladro. Portando con sè l’adorato figlio di entrambi. I pochi risparmi rimasti se ne andarono con loro. E al ladro non rimase altro, tranne rubare per la sua stessa sopravvivenza. Rubava per la maggior parte cibo, lo stesso ormai impossibilitato ad acquistare. Ma era un ladro che serbava ancora una briciola del pudore passato, e si sarebbe tagliato da solo le dita delle mani pur di evitare i furti nelle case dei paesani. La scelta del negozio rimaneva la sola accettabile. Lì poteva trovare carni, affettati, verdure, pane, pesce e frutta. E ne rubava solo lo stretto necessario. Badando bene che non andasse sprecato. Perchè lui, lui si, conosceva il valore dei beni di prima sussistenza. Perso nei suoi pensieri, si trovò davanti il foglietto. Dapprima credeva fosse destinato ad altri. Finchè non lesse, in bella evidenza, il suo nome; “sotto il frigo, nella zona dove di solito tengo anche il pane, troverai i nuovi salami arrivati stamattina. Per cortesia lasciamene uno per i clienti di domani. Grazie. Colin.”
Il ladro passò dietro il bancone, fece scivolare la mano grande e callosa sotto il frigo, afferrò i tre salami e ne lasciò uno dentro. Poi riprese la via della finestra e, con molta cura, la richiuse dall’esterno. «Vecchio, stupido, pazzo. È mai possibile lasciare l’uscio aperto con i tempi che corrono?» borbottò, rimproverando il proprietario assente. Quindi si avviò verso la neve.

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Il cane che si fermò nella neve


Il cane sapeva che il momento del lungo sonno era ormai vicino. Così si era messo in cammino di buon’ora, poco prima che l’alba illuminasse le cime con i suoi fasci cremisi e ambra. Era il momento preferito dalla sua anziana padrona (la sua Dea), quando lo chiamava dalla veranda della casa ai piedi dei monti per la passeggiata del mattino. Ormai lo aveva lasciato solo già da diversi giorni. Era accaduto all’improvviso, come accadono sempre gli imprevisti della vita. Lei si era addormentata sopra la sedia a dondolo, mentre ancora gli carezzava dolcemente il capo. Poche ore dopo giunse al portone di ingresso la figlia. Poi il figlio con la moglie. Poi degli anziani amici. Infine arrivarono anche degli uomini vestiti di scuro, che la presero e la coricarono sopra un letto cosparso di fiori ai lati. La sua Dea non tornò più per chiamarlo alle prime luci dell’alba, e nemmeno si addormentò più carezzandogli la nuca. Il cane iniziò a non mangiare; perchè accettare del cibo dalla mano degli estranei? E poi che bisogno aveva di continuare a nutrirsi? Era troppo avanti con gli anni per sentire i morsi della fame. Si mise di fronte alla sedia a dondolo, accucciato, la sera. E cominciò ad esplorare i paraggi della abitazione, ora messa in vendita. Le cose non cambiarono, e il cane prese a spingersi sempre più lontano. Forse, immaginava, la sua Dea sarebbe tornata a cercarlo. Se solo glielo avessero permesso. Forse, pensava, gli sarebbe stata grata se lui le avesse dimostrato quanto attendeva il suo ritorno, se solo fosse venuta a conoscenza del fatto che la stava cercando. In ogni caso doveva sbrigarsi; gli anni migliori se li era tutti portati via il tempo andato. Occorreva proseguire oltre, prima che le forze si fossero messe contro di lui. Così decise di andare nel luogo del loro incontro; un meraviglioso prato ricco di viole e margherite, dove le nuvole passavano salutando rapidamente chi camminava sul soffice manto erboso. Un prato dove lei gli aprì le braccia e lo invitò a far parte della sua esistenza, prendendosi cura di lui. Se esisteva un posto al mondo, un solo singolo posto sotto la cupola dei cieli, dove la sua Dea lo stava aspettando, non poteva trattarsi che di quello. La memoria però, insieme alle energie, sembrava ormai fargli difetto. Dove si trovava il prato pieno di viole e margherite? Fiutò l’aria intorno, decidendo quale direzione prendere. Non ne era sicuro ma, in una posizione più alta, poteva riuscire a guardare meglio la terra circostante. Fu quando la scalata verso i monti ricoperti di neve era cominciata da diverse e lunghe ore che vide il gatto.
Dapprima non comprendeva per quale motivo il felino gli si parava davanti, pur a una certa distanza, quasi a invitarlo. Poi però, il gatto che suscitava la sua curiosità, divenne un appiglio a macinare altra strada. Non seppe il momento preciso in cui arrivarono i lupi; arrivarono e basta. Scesero lungo il pendio mostrandogli i denti aguzzi e ringhiandogli addosso in segno di avvertimento. Non gli importava; se lei aveva attraversato quel sentiero superando ostacoli e pericoli, poteva lui esser da meno? Lottò con i lupi. Lo fece come meglio poteva, e gli costò sangue e forze preziose. Lo accerchiarono contro una roccia, facendogli temere che per quanti buoni propositi e volontà potesse opporre, non gli sarebbe stata sufficiente. La vista prese a oscurarsi; un rivolo scarlatto formò una sottile tela impedendogli di vedere distintamente. Non capì mai come, nonostante tutto, riuscisse ancora a notare la sagoma lontana del gatto. L’udito, di sicuro, si aggiunse agli altri sensi ormai in pieno tradimento; altrimenti non si sarebbe mai spiegato il basso e prolungato soffio acuto e felino che distolse l’attenzione dei lupi. Era comunque l’occasione propizia, probabilmente l’ultima; si lanciò attraverso una fitta boscaglia e riprese a salire. Sperava che il gatto fosse stato tanto astuto da mettersi in salvo prima dell’inevitabile arrivo dei lupi. Ma, sotto di lui, non si sentiva più nulla. Soltanto il silenzio ovattato della neve. Aveva consumato le ultime forze nello scontro, ne era conscio. Barcollando visibilmente, affondando dentro la coltre bianca, in alcuni punti, sino al collo. Dov’era la terra promessa? intorno a lui esisteva ancora e soltanto altra neve. Oltrepassò un ennesimo cumulo quasi trascinandosi, scivolando con le zampe distese lungo il proprio tronco, chiudendo gli occhi stanchi. Gli riaprì dopo un istante che parve interminabile; intorno a sè, c’erano le viole, c’erano le margherite, c’era un prato verde che la neve sembrava aver cullato in attesa del suo arrivo. Richiuse gli occhi serenamente. Presto, di questo ne era assolutamente certo, una mano soffice avrebbe ripreso a carezzargli la nuca.
A pochi metri di distanza, “Gatto” osservò il cane per l’ultima volta. Il sentiero imbiancato stava per ricoprirsi ancora da quello che il cielo aveva ripreso a mandare. Doveva ritornare ad Aspen; il paesino di montagna si era arricchito di un nuovo venuto. E lui desiderava fare la sua conoscenza.
Dietro Gatto, intanto, la neve aveva ripreso a cadere. Stavolta sottile, leggera, tanto da apparire come una pioggia biancastra, come se i fiocchi fossero soltanto tante lacrime di Dea.

…il cammino di “Gatto” prosegue solo su:

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L’uomo che camminò nella neve


L’uomo avvertiva che stava per avvenire un cambiamento. Lo sentiva sin nel profondo delle sue ossa mentre, a fatica e affondando ad ogni passo, avanzava senza sosta sopra il sentiero innevato. L’esperienza gli aveva insegnato a dare retta a quelle sensazioni nate apparentemente dal nulla. Perchè, come per gli animali, anche gli uomini sono in grado di capire quando sta per avvenire un profondo mutamento, se lo vogliono. Ormai da qualche giorno la neve non aveva fatto più la sua comparsa, sebbene si fosse presentata copiosa nel corso della settimana precedente. Quello che più destava preoccupazione nei pensieri dell’uomo era la consapevolezza che le costruzioni di legno ai margini del sentiero, probabilmente, non avrebbero retto a tutto quel peso. Certo; la maggior parte erano state costruite robuste e con del legno prelevato direttamente dalle foreste sottostanti, legno sano e impiegato da decenni in ogni singola abitazione dello sperduto paesino poco più in alto del punto dove si trovava. Con le ciaspole saldamente fissate alle sue calzature, lo zaino capiente e ampio dietro la schiena, l’uomo osservava l’alito caldo formare delle bizzarre nuvolette a pochi centimetri dalla sua bocca, mentre con le racchette faceva forza per proseguire a fianco dei cumuli più grossi. Una nevicata come quella si sarebbe ricordata per diversi anni, ne era certo. Nonostante in quel luogo, la presenza di un cospicuo volume di quel prodotto invernale del cielo, fosse tutt’altro che inusuale. Infatti, pensava ancora, non era tanto la neve ad essere un fatto straordinario; era semmai il suo contorno umano.
Ciò che lo aveva spinto lungo quella strada di montagna, lasciando l’automezzo molte miglia più in basso, erano state le voci. Le storie tramandate da paese a paese, quelle che definiscono un luogo attribuendo ad esso un interesse caratteristico. In alcuni casi poteva essere una leggenda con un fondo di verità, in altri soltanto la storia di qualche famiglia indigena più intraprendente di altre. Ma l’uomo era curioso e, oltre ad amare i paesini montani generosi nell’offrirgli quelle camminate intense e impegnative all’aria aperta, apprezzava l’occasione di percepire con le proprie narici gli odori del futuro. Da quel punto di vista si riteneva molto fortunato; capire quando un luogo era speciale in confronto ad altri era una peculiarità totalmente personale. Poi vide il bambino. Da principio non seppe attribuirgli un’età precisa. Sembrava quasi una creatura eterea, un essere spuntato improvvisamente dall’immensa distesa di bianco davanti a lui. Procedeva in direzione inversa alla sua, forse stava tornando a casa. Quando gli arrivò quasi accanto gli rivolse un sorriso bonario e rassicurante che venne ricambiato quasi immediatamente. L’uomo e il bambino scambiarono poche affabili parole e una reciproca breve presentazione, prima di riprendere ognuno la propria strada opposta. L’adulto proseguì per qualche passo ancora, quindi si voltò per scorgere il bambino già parecchio più in basso.
«Alan… Alan Brenton… dimenticavo; cerca di stare lontano dalle case vicino ai cumuli di neve… è pericoloso… mi senti?»
Il piccolo non diede l’impressione di averlo sentito, troppo preso nel suo desiderio di arrivare a destinazione con l’impazienza dei giovani. Una folata di vento improvvisa sollevò la neve davanti agli occhi dell’adulto, nascondendo il giovane alla sua vista. E, quando passò, il ragazzino era ormai un punto distante e a malapena distinguibile. L’uomo avvertiva che stava per avvenire un cambiamento. Lo sentiva sin nel profondo delle sue ossa… l’esperienza gli aveva insegnato a dare retta a quelle sensazioni nate apparentemente dal nulla.

…il destino di Alan Brenton lo conoscerai solo su:

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Giornali

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Gli articoli di carta stampata che aveva fra le mani raffiguravano Steve all’apice della carriera di wrestler.
    Un periodo piuttosto vicino negli anni, in fondo…
    La data del quotidiano gli ricordava che erano trascorsi poco più di tre anni da quell’articolo… Tre anni…
    Quanti avvenimenti avevano incrociato le loro rispettive strade, nel frattempo… E, oggi, dopo quel felice periodo, Steve Travel non era che l’ombra di sé stesso; quasi un alcolizzato.     
Padre Wallace scosse il capo. Come a ricacciare quelle considerazioni oscure, sperando di poterle fugare con quel deciso gesto. Ripose i fogli di giornale nella piccola cassa in cui li aveva conservati. Uno a uno.
    Inevitabilmente gli capitò per ultima la pagina con la foto della ragazza… Era molto bella, nel fiore degli anni. (…)
    Se solo avesse potuto cambiare le cose…
    Inclinò il capo verso il basso, sia per riporre anche quell’ultima pagina di quotidiano e sia per rifuggire quei pensieri di superbia che non riconosceva come suoi.
    Non disponeva di molto altro tempo.         
    Stava per sopraggiungere l’orario della messa e doveva iniziare a prepararsi. Fece scivolare la cassa in legno di lato alla cassapanca della sua stanza da letto e indirizzò un pensiero al di là dei vetri. Verso le vaghe montagne del Canada che non poteva neppure scorgere.
    « Vanessa… »
    mormorò con un filo di voce ed espressione sofferta.
    Padre Wallace non usava ostacolare nessuno nelle sue scelte.     Tendeva ad ascoltare.             
    Perché riteneva essere questa la sua funzione principale nel grande disegno dell’esistenza terrena. Ma non poneva mai in discussione l’operato altrui. Si trattasse di uno sconosciuto o di un amico.
    Inoltre l’ex compagno di scuola sembrava felice del percorso intrapreso. Certamente più difficile e duro di quanto potesse attendersi inizialmente. Ma la passione presente sin dalla tenera età per quanto faceva e l’incontro con Vanessa furono la sua benedizione.
    “E maledizione al tempo stesso…”

… sulle pagine del mio libro:
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Aeroplano

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Sognavano di costruire un aereo. E lo avevano anche messo insieme. Come ali due lunghe assi di legno marcio raccolte dai rifiuti e ripulite alla bisogna.
    Per fusto un alto bidone di latta color grigio chiaro alla cui sommità incollarono delle stecchette strappate dalle parti più malridotte delle assi. Per coda dei cartoni di latte ritagliati con la forma di una doppia veletta. Era il loro gioco più divertente con cui sfuggire alle miserie della società. Salivano in coppia sull’aeroplano improvvisato, sognando di lasciare il quartiere. Di vedere il mondo dall’alto rimirando la palla azzurra e marroncina come fosse solo una grossa mongolfiera nascosta tra nubi leggere e candide.
    Giocava a fare il pilota e sceglieva quasi sempre Joaquim come co-pilota; un bambino di colore della sua stessa età con cui viveva il proprio amore segreto. Le proprie speranze per un futuro diverso. Fuori dal quartiere popolare, fuori dalle rispettive famiglie, fuori dal mondo.
Poi tutto mutava. Al calare delle ombre della sera, quando il gruppetto doveva fare ritorno alle mura da cui desiderava scappare, tornando ad affrontare la spietata realtà degli adulti.
Ognuno di loro con differenti problematiche, riconducibili però allo stesso ceppo. Il suo problema era il patrigno (…)
Non si sarebbe mai dimenticata gli occhi di quell’uomo finché avesse avuto vita. Occhi scuri e iniettati di sangue. Dove le fiamme parevano scaturire devastando affamate tutto quello che fosse possibile bruciare. Le mani… quelle mani forti e rabbiose, sembravano non placarsi mai. Carezzavano, stringevano… colpivano.
(…) Tra gli sguardi allibiti di Joaquim e dei ragazzi distrusse i pezzi dell’aeroplano. Le assi, le eliche e la coda. Marci.
    Non poteva più volare tra le nubi.
    Era diventata un uccello a cui avevano tarpato le ali.
    Destinata a camminare tra gli uomini.


… sulle pagine del mio libro:
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Fiori nella Neve: tecnica temporale

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Quando ho cominciato a scrivere il mio libro Fiori nella Neve, oltre a delineare dei personaggi e una trama, ho deciso di sviluppare una tecnica di narrazione che mi ha da sempre affascinato e che, per comodità, chiamerò “tecnica temporale”.
Ovvero un metodo di scrittura in relazione al succedersi degli avvenimenti nel tempo in alternanza tra passato e presente. Considerando la mole di autori che ogni anno sfornano libri certamente non posso pretendere, e non ne ho la presunzione, di aver utilizzato un metodo nuovo. Tuttavia possiamo definirlo senza dubbio uno stile di non facile padronanza e dove la comprensione della storia si snoda attraverso un percorso irto di ostacoli. Che vi sia riuscito in modo ottimale o meno non spetta a me stabilirlo. Quella assolutamente certa è invece la mia fonte di ispirazione, che non risiede tra le pagine di un altro autore letterario, bensì cinematografico. La mia scrittura avviene per immagini ancor prima che per parole e, nel caso specifico, Russell Mulcahy con il suo Highlander ha conquistato tutta la mia ammirazione.

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Nel film del regista australiano possiamo gustare un eccellente esempio di “tecnica temporale” con lo sviluppo di vicende parallele: ciò che si svolge nel passato serve a chiarire le vicende ambientate in età contemporanea dando luogo, di fatto, a una doppia trama in una. Steve Travel, il protagonista del mio romanzo, si muove in questo meccanismo-per-immagini dando vita a una danza in bilico tra il suo ieri e l’oggi, verso un domani rappresentato da un punto interrogativo privo di appigli sicuri. Un viaggio quindi che si manifesta nell’origine del suo stesso cognome (Travel). Perchè cosa è mai la vita se non un viaggio da quello che siamo verso ciò che diventeremo?

 

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Sospiro

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Lo conosceva troppo bene per non sapere che la sua timidezza e modestia gli impedivano di fare qualcosa che, in realtà, desiderava fare (…)
« …Ascoltami bene, Signor Travel; Qualsiasi cosa, e sottolineo qualsiasi, tu potrai mai dire di me… io non riderò. Non potrei mai farlo, sciocco! »
Scrollando il capo e lasciandosi sfuggire un sorriso, Steve lesse…

Sospiro.
Mi sono svegliato nel cuore della notte in questa camera d’albergo, solo.
Non sei con me.
Stai dormendo, serena, in un altro angolo del mondo.
Ti osservo, non ci sei, ma ti osservo dalla finestra di questa stanza.
Non dovrei vederti. Eppure ti vedo.
Sei distesa, il tuo respiro dolce mi avvolge serenamente.
Potrei raggiungerti, svegliarti, sdraiarmi lì con te.
Ma non posso.
Non perché sei lontana, non perché non ci sei.
Ma per poterti sfiorare con il mio pensiero.
… E sospiro.

(…) lo osservò per un interminabile istante, in silenzio.
Quindi lo abbracciò sussurrandogli un “Ti Amo…”.
In tante volte che glielo aveva sentito dire prima e dopo di allora, Steve non aveva mai più avvertito una pace così assoluta nel suo animo…

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