Il rumore delle foglie cadute (antologia di racconti brevi)

pianista

Non avevo previsto questa nuova pubblicazione, ma riuscire a programmare con precisione un percorso già estremamente complicato, come quello della narrativa, è piuttosto arduo. Come saprai, se mi hai letto negli ultimi mesi, sono impegnato nella lavorazione di un nuovo romanzo. Speravo di annunciarne l’uscita almeno nella tarda primavera però, nonostante io sia sempre abbastanza cauto in questo tipo di affermazioni, entusiasmo e ottimismo si sono rivelati maggiori rispetto al consentito. Per quanto la lavorazione proceda e il momento si avvicini, non ho ancora una data precisa di uscita. Questo rallentamento mi ha comunque permesso di notare una ricorrenza che stava per sfuggirmi: i dieci anni di impegno nelle pubblicazioni online. Era infatti il 2006 – dicembre, a voler essere pignoli – quando ho postato su questo blog il primo racconto breve che, in seguito, ho inserito in Fiori nella Neve. L’inizio del mio romanzo d’esordio, ha poi lasciato posto a una serie di altri racconti che, al tempo, sono stati molto apprezzati da chi mi leggeva e dalle giurie dei concorsi letterari a cui ho partecipato. Non amo le celebrazioni e le autocelebrazioni ancora meno, tuttavia sono dell’opinione che, spesso, le cose succedano per un motivo: se non fossi in ritardo sulla mia personale tabella di marcia, Il rumore delle foglie cadute non sarebbe uscito. Perché non mi sarei accorto della ricorrenza. In esclusiva digitale, così come sono nati, nell’antologia sono inseriti sette racconti. Se leggi questo blog oggi, forse non appartieni al nutrito gruppo di blogger e amici che mi seguivano nel 2006 e, di sicuro, non hai potuto leggere quei testi. Se invece appartieni a quei pochi che, da due lustri, stanno proseguendo con me su un sentiero editoriale alternativo a firme rinomate, potrai scoprirli nella loro versione integrale. La scelta del titolo non ha riscontro all’interno dei racconti, ma ha un suo significato. Ho identificato gli scritti con le foglie cadute perché, come queste ultime, riposavano silenziosi e senza apparente importanza: erano effetto della chiusura di un ciclo, quanto le foglie precipitate dagli alberi. Cosa accade quando ci camminiamo sopra? Scricchiolano sotto i piedi. In quel momento ci rendiamo conto che esistono ancora: il rumore ne denota la presenza. E insieme ad esso torna il ricordo. Le porte del tempo si spalancano risvegliando la memoria del vissuto. Così Fabrizio in Buongiorno signor Mavi… rammenta Adelina e l’importanza che una presenza amica comporta nelle nostre vite. L’errante Cavaliere è l’emblema stesso del ricordo. E Caterina, in Ti aspetterò nel pomeriggio non potrebbe nemmeno vivere, senza di esso. Malaerba lo affronta sospirando il presente, ne La vita di Malaerba. Franco è travolto dal ricordo di un altro ne Quello che resta. Tano sogna di riviverlo, ne La grande Onda. E Vito ne conosce il mito umano, ne La leggenda del lupo grigio. Insieme, tutti loro calpestano idealmente un tappeto di foglie. Ne sono attratti e rapiti: per quanto il vento possa soffiarli lontano, non lasceranno mai le radici della nostalgia, che pulsano e li proteggono rendendoli uomini e donne.

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Quello che resta

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Era giunto insieme ad altri due colleghi per svolgere un trasloco da Amburgo alla vicina Rostok. La casa in cui si trovavano appariva disabitata da tempo. Diede uno sguardo ai lati ed uno dietro mentre già si stava avvicinando al pianoforte di cui avvertiva un richiamo percettibile esclusivamente al suo udito. Molte volte aveva tentato di intraprendere gli studi del conservatorio, ma le vicissitudini della vita si erano consumate le sue ambizioni. Impedendogli di coronare i propri sogni. Così Franco si era ridotto a rubare. Rubare melodie a pianoforti lasciati soli nei grossi centri commerciali, o lasciati incustoditi nelle ville dove prestava servizio. Aggraziato nel corpo e nei movimenti, di statura non molto pronunciata e con tratti delicati, il giovane facchino appariva quasi una creatura eterea circondato dall’imponente arredamento antico dello stanzone. Si sedette sulla panchetta nera imbottita colto da un’emozione travolgente. Si cimentò nella Nona sinfonia di Beethoven, completata da Friedrich Schiller con L’”Inno alla gioia” eseguito da solisti e cori. Richiamato dal suono inatteso, il vecchio scese dal piano superiore della villa. Alto, benchè leggermente ricurvo, dietro l’aspetto pelle ed ossi celava due occhi di un azzurro profondo e brillante sotto le folte sopracciglia bianche. L’anziano si abbeverò della melodia. Poi, come tutte le cose, anche essa ebbe termine.
«Come ti senti..?»
gli disse avvicinandosi silenziosamente a lui.
Franco sobbalzò dalla panchetta scura
«Io… scusatemi… io non intendevo….»
cercò di abozzare goffamente.
«Oh… non preoccuparti di me; sono soltanto un povero ed innocuo vecchio ancora innamorato della musica.»
Chiarì allora immediatamente Schröder alzando una mano. «… Mi piacerebbe però avere risposta alla mia domanda…»
aggiunse con discreta insistenza.
«Come mi sento….» ripetè a bassa voce il facchino, non del tutto convinto delle rassicurazioni del padrone di casa ed incerto sull’effettivo senso del quesito «… mi sento… libero.»
«…Lo immaginavo…» gli rispose con un sorriso stanco dipinto sul viso. Poi, colto da pensieri inespressi e dal filo sottile dei ricordi, gli volse le spalle dirigendosi verso la vicina finestra dalle alte vetrate. E tutto dentro e fuori di lui mutò. In un altro luogo, in un altro giorno. Era nel campo di concentramento nella Germania nazista. Qui, Gerhard Schröder, svolgeva il ruolo di ufficiale nell’interno di un abominio razziale voluto dai suoi superiori. Le notti passate in bianco, madido di sudore, rigirandosi tra le lenzuola sarebbero state il prezzo minimo da pagare per il resto della sua esistenza. Il suo amore per le figure geometriche era rimasto anch’esso profondamente infettato dal ruolo ricoperto. Il triangolo una maledizione. Di colore blu e verde per gli immigrati, triangolo di colore rosso per gli internati politici, triangolo di colore viola per i testimoni di Geova, triangolo rosa per gli omosessuali, triangolo nero per le lesbiche. Mentre una singolare stella di Davide giallo-oro con la scritta jude capeggiava sulla pelle degli Ebrei. La sola via di fuga di Schröder era costituita dalla musica. Un elegante pianoforte che giaceva nell’angolo meridionale della baracca ufficiali e che gli ricordava ogni giorno ciò che era stato prima dell’arrivo del conflitto. La logora rassegnazione con cui trascorreva il tempo in quel luogo così deprimente conobbe una svolta quando venne imprigionata Esterina. La bruna ventenne risultava essere una provetta pianista. Un’oasi impensata spuntata nel brutale spigolo di mondo nel ventesimo secolo degli anni quaranta. Con una scusa persa nei meandri della memoria, Gerhard Schröder condusse la giovane alla corte del suo strumento musicale. Bastò un cenno della mano del maggiore tedesco per sbloccare lo stato di estasiata immobilità in cui era ricaduta. Un muto invito a permetterle di sedere davanti allo strumento. Esterina prese a comporre una melodia. Non gli ci volle molto per comprendere il livello di esercizio cui la giovane si era sottoposta. La passione ed i cambi di tonalità così genuini ed improvvisi non lasciavano dubbi al giudizio che il maggiore si era già fatto sulla ragazza dai capelli d’ebano. Le notti successive divennero una nuova maledizione nell’assurdo ed impossibile progetto di salvare Esterina dal fato che l’attendeva. Una pazzia. Non esistevano altri modi per definirla se avesse disposto ancora della lucida e completa ragione. Un’ardita possibilità di fuga dal destino della prigioniera, dal suo stesso destino. Conosceva alcuni amici in Italia, nelle colline toscane. Mosse i suoi contatti con solerzia e cautela, disponendo il progetto di espatrio, facendo leva su ingenti somme economiche che avrebbero dilapidato buona parte delle sue fortune lasciandogli comunque una discreta somma per vivere in Toscana. Insieme ad Esterina. Si Rese conto di un sentimento superiore ed irrefrenabile provato nei confronti della giovane. “Assurdo” contemplò. Si ripromise di mettere subito al corrente la ragazza italiana di quanto predisposto per entrambi. E colse l’occasione propizia nell’unico momento in cui erano insieme da soli; accanto al pianoforte
«Gerhard… che cosa state pensando di fare…?»
«Voglio offrirti quello a cui tieni maggiormente; la vita… e la libertà. Per quanto possa pianificare ogni cosa, ogni singolo dettaglio, un margine di rischio esisterà sempre. Però… è un prezzo da pagare per ottenere qualcosa di impagabile, no?»
Gerhard avvicinò le labbra alle sue. E la baciò. Un gesto che trasmetteva calore, la promessa di giorni e speranze a venire. Lei si staccò di colpo, inorridita
«No… no… no!» gli comunicò impallidendo persino più di quanto già non fosse, colta da un’espressione di puro terrore «Non potete… vi prego… non potete! Non capite?… Possibile che non possiate capire??» disse poi indicando con gli occhi il triangolo nero rovesciato sulla casacca di prigioniera. Il graduato si sentì cogliere da un senso di impotenza
«Esterina… ma io… io ti….»
«No! no, vi prego! Non ditelo!! Non ditelo mai…» lo avvertì, sperando di non sentirgli pronunciare una parola che l’avrebbe trafitta come una lama rovente. Detta da un uomo.
«Posso darti… la libertà!» aggiunse lui cercando con ansia le giuste frasi, sentendola sfuggire inevitabilmente per sempre
«Libertà…? Cosa mai potreste pretendere… da me?  Io non potrei darvi nulla. E… quello che mi vorreste offrire, ad un prezzo per me impagabile, io… lo possiedo già!»
concluse con un’infinita tristezza nascosta nello sguardo. Poi si voltò. Tornando a sedere sulla panchetta. Componendo una melodia di rara bellezza che Gerhard Schröder non sarebbe mai più riuscito a sentire nel corso della sua esistenza.
«Si sente bene…?»
chiese Franco Opellina al vecchio che gli dava le spalle rivolto alla vetrata
«Uh…? si… si, certo… sto benissimo…» fece l’uomo dopo un’interminabile istante di attesa e rammentando la presenza del giovane dentro la sua casa
«Volevo ancora scusarmi per…» provò a ribadire Franco
«Per cosa..? Per avermi regalato dei minuti di assoluta melodia?» sorrise suo malgrado «Sono io a ringraziare te, semmai. Mi hai fatto riassaporare emozioni che non avvertivo da… da una vita.  Devi esercitarti, sia chiaro, ma non mollare mai la musica. E’ la sola compagna fedele che abbiamo. E che vivrà dopo di noi. Quello che resta. Quello che nessuno ti potrà mai sottrarre. Nè le mode, nè gli amori, nè gli odi… e nemmeno le guerre.
….Ora sono stanco. Ed ho bisogno di riposare un poco….»
«Certo… buona giornata» commentò sottovoce Franco lasciando libera la panchetta del pianoforte.
Si sentiva appagato e fortunato. Il suo bisogno soddisfatto senza gravose conseguenze. Uscì dall’ampio stanzone colmo di mobili intelati e sottratti alla polvere per raggiungere i suoi compagni di lavoro. Dietro di lui, Gerhard Schröder rivolse un ultimo pensiero agli anni cupi della sua giovinezza ed iniziò a suonare…

Autore testi: Keypaxx © Copyright 2006-2010. Tutti i diritti riservati.

La via delle rose

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«Posso sedermi…?» gli chiese un uomo interrompendo il filo dei suoi pensieri. Il nuovo venuto dimostrava una sessantina d’anni; il volto attraversato dalle rughe ed i capelli argentati sopra due sopracciglia della stessa tonalità lasciavano intuire si trattasse di una persona su quella età. Salvatore lo guardò distrattamente, esitando per un momento, per poi fare un cenno di assenso con il capo.
«E’ davvero bello, eh? E trasmette un senso di pace che non si trova altrove… » Esordì il nuovo arrivato intrecciando le mani e mostrando un sorriso bonario a bocca aperta rivolto al lago,  per poi osservare il giovane. Il loro aspetto fisico era similare e, forse, questo lo incentivava alla conversazione «Oh, che sbadato… Non mi sono presentato; mi chiamo Antonio… E lei?»
«Salvatore…. piacere mio…» fece di rimando dedicandogli un’occhiata sfuggente.
«E’ un’usanza che osservo da diversi anni, ormai. Venire qui a lago Gurrida, intendo dire. In estate è bello avvertire gli odori del vigneto libero dall’acqua. Credo non ce ne siano di uguali altrove…» aggiunse indicando verso un punto della gora, mentre una coppia di piovanelli sorvolava la superficie in cerca di cibo. Salvatore ravvisava una sorta di spiccata cordialità negli atteggiamenti dell’uomo. Un’affabilità che, nonostante tutto, gli risultava piacevole anche nel suo stato di apatia.
«Ma la cosa più piacevole..» continuò Antonio «..è vedere l’armonia con cui tutto si muove. Dalle anatre, agli uccelli.. somigliano a tanti piccoli ingranaggi dello stesso orologio che batte senza sosta scandendo il tempo. Un orologio invisibile. Perchè, se anche scorre, il tempo qui pare essere fermo.. come l’acqua.
Magari le persone avessero le stesse qualità, eh.. magari. Gli anni invece, ahinoi, passano senza sconti!» sospirò battendo piano i palmi delle mani sulle ginocchia
«Dipende dalle situazioni che viviamo. Mio padre, ad esempio, è passato da un matrimonio all’altro. Fallendo rapporti su rapporti. Evitando anche di conoscermi. A lui gli anni non han giovato..»
Rivelò con amarezza all’estraneo seduto accanto.
Antonio sembrò valutare per qualche istante la ferita espressa dal falegname. Diede un’occhiata alle poche nubi candide sopra le loro teste abbeverandosi di un cielo terso della stessa tonalità dei suoi occhi vivaci, poggiando la schiena contro il legno.
«Uhmm… eccole là. Ci sono sempre.. e rigogliose come le ricordavo. Proprio in mezzo al sentiero che attraversa i salici accanto al lago..».
Salvatore gli diede un’occhiata interrogativa, per poi volgersi verso il punto indicato da Antonio. Seppure a distanza di qualche decina di metri, erano ben visibili le rose. Si stagliavano rosse e bianche, piegate da una leggera brezza incentivata dalla configurazione del terreno. I colori primeggiavano intensi tra le tonalità di verde dell’erba e delle piante. In lontananza apparivano come punti brillanti di un affresco naturale.
«Pochi anni fa, al tempo del mio fidanzamento con la mia attuale moglie, camminavo incerto tra il profumo e la fragranza di melo. Non sapevo decidermi. Sia inteso; amavo ed amo tutt’ora la mia compagna. Ma il matrimonio è una di quelle questioni che ti mettono una paura incredibile addosso!» si confidò con un sorriso complice stampato nel viso solare che faceva apparire le rughe come una presenza solo accennata «La rosa è simbolo di perfezione, lo sapeva? Completezza.. usata persino da Dante nella sua Divina Commedia; la strada per giungere in paradiso. E chi siamo noi per contraddire Dante? Comunque, le decisioni più importanti, le ho prese passeggiando tra i roseti. Decisioni del cuore e della mente. Il senso di serenità che trasmettono è qualcosa di… indescrivibile. Dovrebbe provare..»
concluse suggerendo al giovane.
Salvatore rimase stupito dalle riflessioni dell’uomo. In modo incomprensibile stava riuscendo a leggergli dentro. Illuminando le sue pene sentimentali come un faro indica la rotta alle navi sperse nella cappa di ombre della notte.
«Una semplice passeggiata dovrebbe indicarmi come risolvere i miei problemi?» bofonchiò poco convinto esprimendo le proprie perplessità.
«Se fosse così facile… se bastasse.. camminare. Con i chilometri che ho divorato in questi ultimi giorni potrei arrivare a capo di tutti i problemi del mondo!»
Antonio si accese una sigaretta e diede subito un paio di profonde boccate socchiudendo le palpebre.
Gustava il tabacco da incallito fumatore. Sulle unghie le tracce indelebili della nicotina.
«Mio nonno soleva ricordarmi spesso che, per sbucciare un cesto di patate, si deve pur sempre cominciare dalla prima..»
gli rispose con un sorriso a bocca aperta e mostrando anche sui denti i risultati del troppo fumo. Salvatore gli dedicò l’ennesima veloce occhiata; dava l’impressione di anticipare persino le domande, in un certo senso.
«Ci sono “patate” che si sbucciano difficilmente. Magari non abbiamo il coltello adeguato. Magari non sappiamo da che verso prenderle meglio. O forse, più facilmente, non è il nostro mestiere! Io non mi ritengo.. adatto. Debbo prendere una decisione. La decisione della mia vita. Oppure, chissà, può darsi che io somigli troppo a… mio padre.» Considerò il giovane con un accento di tristezza nella voce «dovrei sposarmi tra un mese. Si rende conto? Io dovrei sposarmi… con una donna che non sa da quale famiglia provengo. E, fino a pochi mesi fa, non lo sapevo neppure io. Mia madre è finita in una clinica. Piena di farmaci di ogni tipo; pasticche gialle, rosse, verdi, bianche… da sembrare caramelle colorate! Ma ha avuto la forza di dirmi la verità su mio padre. E sul padre di mio padre. Stessa razza, stessi comportamenti. Cambiavano donne come si cambiano le camicie. Seminando figli a destra ed a manca, senza assumersi le loro responsabilità. Credevo che il mio illustre genitore fosse morto (e sotto certe prospettive, lo era), poco dopo la mia nascita. Ed invece, in un ultimo barlume di lucidità, mia madre mi ha rivelato come stavano davvero le cose: era soltanto un vigliacco irresponsabile..» disse stringendo i pugni ed irrigidendosi «Con queste premesse, come posso sperare di essere un bravo marito… un bravo padre?? Ho una tara ereditaria. Sarei solo un fallimento.. per me ed il mio matrimonio?»
Antonio era rimasto in silenzio ad ascoltare Salvatore. La sigaretta stretta tra le dita, il fumo che tratteggiava labili sigilli aleatori danzando brevemente attorno alla sua tozza figura «Le rose galliche, quelle di un rosso acceso che trovi sul sentiero oltre i salici, si allungano sul terreno.. ma si possono separare facilmente dalla pianta madre. Sopravvivono ad essa. Splendendo di propria luce. Certo, i parassiti sono sempre in agguato, per loro come per tutti gli altri fiori. Però è meraviglioso vedere come un semplice gesto di un giardiniere sia sufficiente a farle crescere con prosperità!» aggiunse riportando la sigaretta alla bocca.
Il giovane falegname sembrava sfinito. La tensione accumulata negli ultimi tempi improvvisamente liberata da quell’uomo conosciuto da pochi minuti.
«Si… in fondo una camminata non può certo farmi male. Voglio proprio vedere questa… via delle rose. Magari il profumo di quei germogli mi tranquillizzerà. Mi ha fatto bene parlare con lei, Antonio. Credo di averne avuto bisogno. La troverò ancora qui al ritorno?» chiese facendo qualche passo verso il sentiero.
«Respirerò ancora per un po’ l’aria del lago…» gli rispose mentre tornava serenamente ad occupare la panchina.
Salvatore Annomaria lo salutò allora con un leggero cenno del capo e s’incamminò. L’uomo attese che il ragazzo sparisse alla vista, inghiottito dal verde del fogliame. Quindi si rimise in piedi avviandosi lentamente nella direzione opposta. Tramite un amico di un amico della madre, era riuscito a carpire notizie sul falegname. Saputo che la donna era stata ricoverata, che il momento del figlio fosse ipoteticamente molto difficile, si era prodigato per cercarlo. Non credeva che la situazione fosse così rovinosa. Ma aveva cercato di fare quanto in suo potere per dare un piccolo contributo. Non avrebbe avuto seconde possibilità. La malattia lo stava consumando inesorabile, senza scampo. Lasciandogli ancora un mese o due di vita. Presto non sarebbe stato in grado più di uscire di casa. Gli piaceva però che Salvatore serbasse quel ricordo di lui. Non avrebbe mai saputo chi davvero fosse. Non importava. Dialogare con lui era stato quanto sperava di riuscire a fare ancora nella sua vita.
Passando accanto all’argine raccolse una rosa bianca; la più delicata. Ne aspirò a fondo la fragranza, spezzò il gambo, e la mise nel taschino della camicia. Il lago rifletteva i raggi del sole. Un paio di colpi di rabbiosa tosse lo scossero mentre ritornava verso casa.

Autore testi: Keypaxx © Copyright 2006-2010. Tutti i diritti riservati.

La grande onda

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Tano Occhiedda era un bagnino che amava il mare. L’occupazione gli aveva permesso di mantenere un fisico asciutto. Nonostante il grigiore dei capelli e delle sopracciglia, le numerose rughe che si diramavano come profondi solchi vuoti lungo il volto, Tano Occhiedda si sentiva in pace con il proprio corpo. Non si era mai sposato. Per quante avventure avesse avuto nell’arco della sua vita, non si era mai legato a nessuna donna. Sia per scelta personale e sia perchè loro non lo avevano scelto. Era più redditizia una breve relazione amorosa che un legame con un uomo desiderabile e sempre in vista. Lungo la spiaggia sabbiosa del sud incrociò persone ed amici conosciuti. A pochi metri dal mare, sopra una torretta in legno con le insegne del corpo, stazionava un bagnino. La zona di lavoro era la stessa ricoperta per tanti anni da Tano. Ed un’inevitabile ombra di nostalgia gli velò lievemente gli occhi. Il giovane poteva avere sui vent’anni o poco oltre. Prestante come doveva essere, con una lunga chioma bionda che sfiorava le spalle. Poco distante dalla postazione, due turiste sdraiate a terra osservavano il ragazzo con interesse. Scambiandosi impressioni e valutazioni. “Il mondo non cambierà mai.” Considerò divertito. Lo riteneva un fatto normale. Ai lati opposti del fazzoletto di sabbia camminavano alcune massaggiatrici, nel tentativo di guadagnarsi la giornata. Poco più lontano dei venditori di cocco con i secchi ripieni parlottavano con alcuni bagnanti. Mentre uno sparuto gruppo di ragazzini si accingeva a mettere in acqua il moscone appena noleggiato. Tutto sapeva di vita e movimento. Il mare cristallino e l’aria salmastra si mischiavano in una miscela di colori ed odori inequivocabili. L’arenile della spiaggia della Plaja, tra Catania e Siracusa, è considerato tra i più fascinosi dell’intero Mediterraneo. Si estende per svariati chilometri lungo il viale Kennedy. Una sabbia finissima ed indorata da fervidi raggi del sole che fungono da contorno ad invidiabili tonalità naturali.
«Un giorno mi lascerò prendere dal mare, Tanino..»
Affermò il compagno e maestro Nicola Ruffozima, un mattino d’estate. Usava chiamarlo così. Come, all’epoca, facevano in molti, riferendosi alla giovinezza ed al fisico non ancora perfettamente sviluppato.
«Che cosa stai dicendo, Nicola?» Gli domandò lui cogliendo una nota di amarezza nella voce.
«Qui tutto comincia. E tutto finisce. Non mi credi? Guarda in cielo.. hai mai visto una più immensa migrazione di uccelli? Certo che no. Sei sempre stato a Catania. Ma io ho viaggiato molto in passato. Sono stato in tante altre spiagge del sud e anche del nord. All’estero. Però il sapore di casa, il gusto che si trova qui, è merce rara. Lo capiscono anche gli uccelli. Lo sentono. Inspira, Tanino..» Suggerì al ragazzino imitando il gesto.
«Gusta l’aria… fattela entrare nei polmoni. Devi prenderci confidenza, farla tua veramente. Questo è un lavoro di alta responsabilità. Dalle tue capacità, dalla tua prontezza di riflessi, dipenderanno presto delle vite. Avrai più oneri che onori. Eppure, nulla sarà in grado di darti un sapore migliore.»
«Sarei lieto se fosse il mare a prendermi con sè. Sai, quando il vulcano si risveglia, quando una sua qualche parete collassa in acqua, viene a crearsi un onda anomala. Irripetibile. Io ho avuto modo di vederla una sola volta. All’incirca alla tua età. Uno spettacolo che non dimenticherò mai. Mi auguro sempre di rivederla. La grande onda. Poterla cavalcare….»
Tano Occhiedda lo ascoltava sgomento, senza riuscire a comprendere il senso del suo discorso. L’idea della fine troppo distante nei pensieri di ragazzino. Quell’episodio era rimasto sopito per decenni nella memoria del bagnino. Risvegliato dal volo degli uccelli migratori sopra la nuca. L’immagine di libertà, la maestosità dei movimenti quasi geometrici nelle loro traiettorie, sembrava racchiudere segreti indecifrabili.
Arricchivano il lungomare con la loro leggiadra e costante presenza, confondendosi tra i bagnanti in riva al mare e tra le onde.
«Buongiorno, Tano. Anche oggi una splendida giornata di sole, eh?!» Lo interruppe nei suoi pensieri Luca Caggianica, il portiere dell’albergo Marechiaro che si trovava sul litorale.
«Mi sono scaldato da quando sono nato, con il sole, Luca. Ed è stato mio compagno di lavoro per tanti anni… Si, è davvero una giornata meravigliosa.» Rispose l’anziano bagnino ricambiando il cortese sorriso ricevuto. Proseguendo raggiunse una piccola insenatura poco distante dall’Oasi del Simeto e si fermò. Diede uno sguardo all’Etna che riposava alle sue spalle. Il vulcano non dava segni di attività ormai da diversi anni. Da poco tempo aveva colto il significato delle parole espresse da Nicola Ruffozima, l’antico primo maestro di lavoro e di vita. La grande onda sarebbe giunta anche per lui. Forse soltanto nei sogni. Come era avvenuto per il collega. Ma si augurava lo trovasse lì, in riva al mare.
Cancellando i solchi prodotti dalle ruote della sua carrozzella che si erano sostituite alle gambe. Congiunse le mani e si adagiò sereno sul morbido schienale chiudendo gli occhi. Poi qualcosa disturbò la sua veglia. Un fruscìo d’ali accanto al viso. Un gabbiano curioso e solitario che poggiò le zampe sul bracciale. Con i palmi della mani aperti lambì le piume catturandone il calore. Finchè lo osservò rialzarsi in volo, planando sopra le onde. Le onde più grandi.

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Autore: Keypaxx © Copyright 2007. Tutti i diritti riservati.

La vita di Malaerba

Tempo di vendemmia, questo scorcio di fine estate.
Mi pare il momento perfetto per farvi leggere un racconto in tema.

Racconto che mi ha fruttato una lussuosa bottiglia di Sangiovese, con pergamena.
Insomma, sulla frutta andiam spesso a parare da queste parti.

Che dire? ora attendo un bel pollo con patatine.
Annaffiato con buon bicchiere del vinello in questione.
Alla salute!

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La vita di Malaerba

Costanzo Malaerba si era costruito un avvenire nelle sue vigne a Trapani. Viveva per esse. Ed esse vivevano per lui. Poichè nessuno della sua famiglia sembrava propenso a proseguire una tradizione pluricentenaria tramandata da padre in figlio. Tradizioni che avevano il sapore del vino. Di quello migliore. Coltivato con il sudore della fronte. Il fallimento maggiore della sua esistenza consisteva proprio nel non essere riuscito a trasmettere le proprie dedizioni ai figli. Uno ad uno se ne erano andati. Per prima la moglie Carmela. Riposava a pochi chilometri dai vigneti. Nel cimitero di famiglia. Circondato da cipressi e salici, immerso nel verde che aveva tanto amato insieme al marito. Poi era toccato a Mario; il primogenito. Il figlio per cui spesso stravedeva a discapito degli altri. Un incidente di caccia glielo aveva tolto prematuramente portandosi dietro un altro pezzo di cuore. Forse per questo motivo se ne erano andati anche gli altri. Non riuscendo a perdonargli le preferenze al primogenito. Antonio, Maddalena. E Francesco. Il più robusto dei tre figli restanti. Somigliante maggiormente al genitore, con un carattere schietto e sincero. Cresciuto quando ormai i possedimenti avevano raggiunto il loro apice. Quest ultimo portava il fardello delle ultime speranze di Costanzo. Ed anche queste si sbriciolarono come la carta consumata da un fuoco lento ed implacabile.
Gli restavano le vigne. Quelle che non lo avrebbero mai lasciato. Quelle in cui riversava la sua cura. Il suo amore. Lì gli anni, oltre le settanta primavere, non importavano, non si sentivano. Poteva piegarsi curvo lungo il tronco smilzo mentre le ciocche di capelli bianchi si incollavano tra perle di sudore sulla fronte spaziosa, sentire i battiti del cuore aumentare per la fatica come un tamburo battente dalla ampia cassa di pelle logora e navigata. Dolergli le ginocchia e ferirsi le mani rinsecchite. Ma quello restava il suo posto. Il miglior posto in cui si sarebbe mai voluto trovare. La madre terra in cui era nato, cresciuto ed invecchiato. Guardava con immutata fierezza i grappoli che pendevano rigogliosi tra le foglie smeraldine, destinati a finire in vino.
“Salvo sarebbe orgoglioso di me…” meditò dedicando un pensiero al vecchio zio. Il fratello della madre gli aveva insegnato buona parte di quello che sapeva. Aveva poi attraversato i luoghi più generosi della nativa Sicilia per  concedere maggior prestigio alle sue vigne. Recandosi alla vicina Agrigento, poi a Caltanissetta per il nero d’Avola, a Ragusa per i moscati. Persino sull’Etna, il più rinomato ed alto vulcano europeo, per la conosciuta ed ambita viticoltura dei terreni vulcanici. Pochissime si erano rivelate le possibilità di ricreare gli stessi presupposti di crescita. Le diverse coltivazioni, i differenti terreni in cui la mano dell’uomo godeva di parziali responsabilità. In cui la vera artefice risultava essere solo la natura. In grado di regalare numerose meraviglie che spesso sbalordivano. Alla fine, tornava sempre con lo stesso indomabile spirito alla sua Trapani: posizionata sulla parte ovest della Sicilia, su di un antico promontorio che si affaccia al Mediterraneo, manteneva connotazioni leggendarie legate alla propria origine. La prima la vedeva sorgere dalla falce caduta di mano a Demetra, la dea della prosperità. la seconda dallo stesso attrezzo perso però da Saturno, dio del cielo. Storie con cui Costanzo era cresciuto e che riempivano sogni e fantasie della sua età più spensierata. Quando, nei momenti di svago, usciva in mare con altri ragazzini. All’ombra delle tonnare. Spiando i pescatori intenti nella mattanza. Oppure quando correva a perdifiato giù per le colline. Scivolando tra i ciliegi e le siepi, munito di una spada di legno ed un cappello di carta. Giorni così lontani, eppure vicini nella sua mente tendente ai ricordi. Passò accanto alle sue vigne preferite. Quelle destinate al Piana dei Salici. Un vino colore del rubino che manteneva la preziosità della pietra stessa. Sapeva di tabacco. Appena preso in bocca lasciava per qualche istante straniti. Regalando solo successivamente la sua pienezza di frutto. Era anche il prediletto di Francesco. Partito verso il nord. In cerca di un lavoro nell’elettronica ed i computers.
Scosse il capo sconsolato. “Come ho potuto fallire così miseramente con i miei figli..?”
si chiese ancora per l’ennesima volta nell’arco di una stessa giornata. Poi un colpo di acuta tosse lo fece tornare al presente. “Il tabacco…” constatò rammentando le avvisaglie del medico. Secondo il dottore avrebbe dovuto smettere di fumare. Ma Costanzo Malaerba non lo avrebbe mai ascoltato. Il fumo era uno dei suoi pochi vizi, anzi, forse il solo vizio che ancora si permetteva. Lo considerava un prezzo da pagare tra gli altri acciacchi dell’età. Fu colto da un altro colpo di tosse. Quindi anche questa decise di lasciarlo.
“Un altro vantaggio della vecchiaia: nulla resta troppo a lungo…” pensò mentre un leggero sorriso amaro gli tratteggiava le labbra serrate, come fossero una piccola ferita sul volto adornato dalle rughe. Incespicò su una piccola cunetta di terra mossa e si appoggiò malamente contro una vite per non rovinare al suolo. Imprecò contro la sua sbadataggine. Attribuendo le colpe al troppo pensare. Al fantasticare sui giorni remoti. Fuori luogo per un uomo che viveva con il sapore dei campi e degli arbusti tra le narici, si disse.
L’istante successivo un paio di robuste mani lo sorressero inavvertitamente. Quando si voltò trattenne a fatica un verso di grande sorpresa mentre strabuzzava gli occhi stanchi.
«Ciao papà…» gli disse il figlio Francesco mentre coglieva un paio di chicchi d’uva per il Piana dei Salici «Sono passato per Trapani a prendermi i documenti che aspettavo. Ti dispiace se mi fermo un poco con te..?»
Dallo sguardo del padre trasparì una gioia che le parole non sarebbero mai riuscite a descrivere. Il sole era già alto ed il cielo terso regalava un azzurro limpido ed acceso. Dal colle su cui si trovavano si poteva scorgere il mare. Il vento placido trasportava con sè gli echi del porto lontano. Il vecchio non rispose. Limitandosi ad un cenno affermativo con la nuca. Il Padre ed il figlio iniziarono ad ispezionare le foglie, gli acini, i rami da potare. Fianco a fianco.

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Autore: Keypaxx © Copyright 2007. Tutti i diritti riservati.

Buongiorno signor Mavi…

Cari keypaxxiani, sono reduce dalla premiazione, quale menzione d’onore, al concorso letterario, di poesia e prosa:

VALEGGIO FUTURA 2007 sul tema:
 "SOLIDARIETA’, IO PER GLI ALTRI".

Tenutosi a Valeggio sul Mincio oggi, domenica 10 giugno 2007.
Di seguito, vi riporto il racconto premiato. Un pargoletto che mi coccolo con affetto….   

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http://stat.radioblogclub.com/radio.blog/skins/mini/player.swf   Consiglio l’ascolto del brano per la lettura.

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Buongiorno signor Mavi…

Fabrizio Mavi non credeva più in nulla. Aveva abbandonato da tempo la religione, dopo aver perduto il lavoro a quarantacinque anni ed aver perso i suoi pochi amici. Qualcuno sposato era geloso della moglie, altri preferivano evitarlo per coltivare il proprio orticello. Il carattere all’apparenza burbero ed introverso aveva contribuito a fare di lui un uomo isolato ed ignorato. Il fato gli si era accanito contro, e a nulla era servito sperare che la sorte avversa potesse terminare.
Così si era richiuso in se stesso, precipitando in uno stato di apatia da cui non riuscì a risollevarsi.
«La depressione è una brutta bestia. Una malattia terribile e difficile da sconfiggere… devi lasciarti aiutare…»
Gli ripeteva la vecchia madre appena compresa la situazione del figlio. Ma le condizioni di salute e l’età avanzata non le permisero di prendersi cura di lui come avrebbe voluto. Il monolocale che occupava, nel quartiere popolare di Verona, divenne il suo sudario dall’abbraccio stretto e soffocante. Un calvario chiuso in quattro pareti fredde e dall’intonaco fatiscente. Usciva solo per comprarsi lo stretto necessario a sopravvivere. Talvolta mangiando una volta al giorno, talvolta scordandosi di farlo, talvolta dovendo rinunciare per il basso sussidio che percepiva. Negli ultimi anni aveva iniziato a sbiancarsi nei capelli e a perderli. Tanto che, il viso e gli occhi infossati uniti ad una carnagione chiara, gli conferivano un aspetto quasi spettrale che si combinava adeguatamente alla corporatura smilza e dinoccolata. Somigliava alla controparte maschile di Adelina; la ragazza che ogni giorno lo salutava sulla soglia di casa prima di uscire. Minuta, pallida, sembrava saperlo scrutare dentro dai suoi inseparabili occhiali scuri. Vestiva sempre con capi sobri e neri, giacche di una misura più ampia rispetto alla sua taglia, sopra magliette di cotone bianco.
«Buongiorno signor Mavi… le occorre qualcosa? Sto uscendo…»
Si rivolgeva a lui con un tono di rispetto e cordialità inusuali. L’unica persona dell’intera palazzina a farlo per qualche strano motivo. Perlomeno tale appariva a Fabrizio. Ormai disilluso dalla vita e dal prossimo. Non aveva più nulla da dare, eppure quella ragazza dai capelli corvini, raccolti sempre in una coccarda, impegnava ogni giorno alcuni minuti del suo tempo soffermandosi accanto alla sua porta d’entrata. Lo riteneva l’ultimo flebile spiraglio di una luce che si affievoliva progressivamente. Nonostante il dialogo con la generosa vicina si limitasse a quella singola frase ricorrente, cui rispondeva con un cenno negativo del capo ed un triste sorriso, l’importanza della cortesia assumeva un fondo sostanzioso nel lento incedere di giorni opachi ed aridi sempre fedeli a se stessi. Nei pochi istanti dell’incontro, Fabrizio si sollevava dal letto e compiva i pochi passi necessari a raggiungere l’ingresso, richiamato dal trillo del campanello. Un rituale quasi religioso che percorreva la medesima linea retta, eseguendo una camminata lenta e svogliata che lo scuoteva dal torpore fisico e mentale. Adelina si era insinuata nella sua esistenza. Questo un dato di fatto inconfutabile. Ci era riuscita arrivando in punta di piedi, senza utilizzare la forza della carità o dell’apprensione. Il ragazzo iniziò a contare i minuti che lo separavano dalla sua visita, quindi le ore. E, quando questa avveniva, un sapore diverso sostava per qualche tempo nella sua giornata. Un aroma di tranquillità, un gusto di umanità. Poi, come tutte le cose belle della sua vita, anche la visita di Adelina si interruppe. Il primo giorno, Fabrizio rimase seduto sul letto. Attendendo invano per delle ore. Trascorrendo una notte quasi insonne. Avvertendo un’inspiegabile nodo allo stomaco. Maturando un’ansia insopprimibile. Il mattino seguente lo trovò curvo sul materasso, con le mani a stringere la nuca e lo sguardo a cercare un’inesistente spiraglio luminoso dalla porta. Dondolava il tronco con i gomiti appoggiati alle ginocchia, alternando la vista dai piedi all’entrata del monolocale. Inquieto. Non poteva accettare che la sua vicina si fosse dimenticata di lui. Non anche lei. Era assurdo.
“Se soltanto le avessi detto qualche parola… forse….”
Meditava preso dall’angoscia di aver commesso qualche inspiegabile mancanza. Si assumeva mentalmente ogni colpa, quasi cercando di espiare, ripromettendosi che avrebbe assunto un comportamento meno schivo, sperando bastasse ciò a rivedere Adelina. Ma anche così, la ragazza non si vide.
Fabrizio prese a camminare nervosamente lungo l’appartamento, attraverso il disordine degli abiti sparsi a terra, a fianco delle pentole dimenticate nel lavandino, sfiorato dalle fasce orizzontali del sole che si affacciava timidamente dalle persiane sulle finestre.
“Le è accaduto qualcosa. Deve essere così… non ci sono altre spiegazioni. Lei non mi abbandonerebbe mai… mai!”
Provò a convincersi. Incapace di tollerare diversamente. Decise di scoprire il motivo della latitanza e si infilò le scarpe, sopra la maglietta nera una giacca sgualcita, e solcò l’uscio di casa. Disorientato, si rivolse alla signora del primo piano; una anziana pensionata che passava il tempo osservando i vicini della palazzina e la vita che scorreva fuori sulla strada.
«Adelina..? Adelina Ghiotti..? La ragazza che sta su, all’ultimo piano… Si, si.. la vedo passare ogni giorno. Ha avuto un’incidente… Non lo sapeva?»
Lo informò dimostrandosi al corrente.
«Un… incidente?!? No… non so nulla. Cosa le è accaduto? Come sta adesso?»
La incalzò agitato, sentendo la gola inaridirsi.
«Non si sa. Io da qui non posso muovermi. Ma mi ha informata il figlio della Giovanna; la vedova del secondo piano. Il ragazzino stava prendendo l’autobus per andare a scuola, come tutte le mattine, ha sentito un botto a pochi metri di distanza ed ha visto l’Adelina accasciata a terra. Una macchina l’ha investita. Per fortuna non correva molto.. La nostra vicina sembrava essere ancora vigile quando è arrivata l’ambulanza. Adesso è ricoverata in ospedale.. Però altro non saprei dirle… Non posso muovermi…»
Ripetè l’anziana lamentandosi della carrozzella che la confinava. Fabrizio la ringraziò con un filo di voce e si dileguò verso la fermata dell’autobus. Attese con impazienza l’arrivo del mezzo pubblico e contò le fermate necessarie per giungere in ospedale. Vi giunse insieme ad un’ambulanza del pronto soccorso, da cui alcuni infermieri prelevarono una portantina con un ferito ricoperto di sangue. La visione lo fece rabbrividire, ma non si fermò. Proseguì soffermandosi alla portineria per chiedere informazioni, salì diversi piani di scale con il fiatone per non attendere l’ascensore occupato. Quindi, con il cuore in gola, si presentò davanti alla stanza con Adelina dentro. La distinse subito tra le altre degenti; l’inconfondibile carnagione pallida, i capelli scuri sciolti, ora sulle spalle, che incorniciavano un viso emaciato, le spalle magre che fuoriuscivano dalle lenzuola di cotone. Una medicazione bianca e spessa sulla fronte rimarcava l’accaduto.
Fianco al letto un bastone bianco, con un’estremità rossa, dalla verniciatura fosforescente. Un oggetto che non aveva mai scorto prima, forse appoggiato di lato ad ogni sua visita. Un’inaspettata scoperta per l’allibito Fabrizio; la giovane veronese, che da svariate settimane gli offriva un apporto morale, combatteva quotidianamente con problematiche persino più grandi delle sue. Si avvicinò con cautela al letto e le vide riaprire gli occhi vuoti. Dopo un’iniziale smarrimento, Adelina mosse lievemente il capo, arricciando il naso, nutrendosi della nuova presenza che la fece sorridere.
«Buongiorno signor Mavi… Come sta oggi?»
Probabilmente il particolare odore di lavanda e di pelle erano caratteristiche inconfondibili per i sensi acuiti di Adelina.
«Io bene, grazie Adelina… Hai bisogno di qualcosa…?»
Le rispose con un sorriso ancora più radioso e grato del precedente. Per nulla sorpresa. Dando l’impressione di conoscerlo più di quanto lui conoscesse se stesso, in fondo.
«Grazie… Per ora non mi occorre nulla. Sono tutti molto gentili con me. A volte bastano poche cose per fare avvertire il proprio affetto e calore. Qui sono abituati a dimostrarlo….»
Fabrizio soppesò brevemente quelle parole e non disse altro. Si limitò a farle compagnia, ad offrirle quello che aveva ricevuto. E lo stesso fece per i giorni successivi. Anche quando Adelina venne dimessa.

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L’uomo che parlava al vento

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Sfogliava il fascicolo degli accantonati della settimana con un’inedita serpeggiante curiosità negli occhi di un chiaro celestino che tanto piacevano alle sue stesse sottoposte.

Quel mattino dal clima pungente di una primavera che tardava a giungere, lo aveva trovato riverso sopra i fogli del suo quadernone con anelli.

La bocca costretta ad un pronunciamento forzato delle labbra ed il mento arretrato come fosse immerso in un bacio sospeso che mai avrebbe scoccato.

Lo sguardo dapprima ansioso di ricercare tra le righe e le pagine continuamente torturate da dita robuste, callose, mai sottratte a lavori umilmente gratificanti, seguitava ora a scorrere una facciata particolare del foglio davanti a lui; il paragrafo con protagonista Michele Borromeo.

Da quando un anno addietro era giunto a Trieste dalla sua amata Sicilia prendendo il posto vacante di commissario di polizia, Vito Cammarata aveva scorto tra gli accantonati il nome di quell’uomo uno svariato numero di volte.

Era stato costretto a non approfondire mai il suo caso oltre la normale amministrazione, sempre travolto da più urgenti interpellanze e problematiche che richiedevano comunque un rimedio immediato.

“Una scusa per ingannare se stessi..” considerò tra sè e sè. In realtà, in quasi dodici mesi, il tempo lo si poteva trovare per casi ritenuti di un qualche minimo interesse.

Aveva permesso alle dicerie del commissariato di anteporsi al senso del dovere.
Per comodità, per rispetto verso poliziotti navigati, per noncuranza.

«Borromeo…? Micheluzzo è un uomo che parla con il vento!… Gli diciamo sempre che il vento non ascolta, noi…» gli rispondevano gli interpellati nascondendo a fatica una risatina denigrante più per rispetto dell’ufficiale dinanzi a loro che dell’uomo di cui parlavano.

Già quella sarebbe stata una ragione sufficiente a spingerlo ad approfondire il caso, si disse valutando la sua tardiva reazione.

Per fortuna una della argomentazioni principali ad impedirgli di svolgere il suo lavoro era andata a decadere, ed il commissario disponeva di qualche giorno di tranquillità tra le pratiche opprimenti degli ultimi mesi.

In fondo, il fascicolo che teneva tra le mani, se lo era fatto preparare esattamente per quella specifica spiegazione non amando il mezzo elettronico fornito dagli onnipresenti computers.

Giunto di buon ora dietro la sua scrivania d’ufficio, come era solito fare, disponeva ancora dell’intera giornata per dedicarsi alla questione dell’uomo che parlava al vento.

Non era vicino alla sede di polizia. E per raggiungere la sua abitazione sarebbe stato costretto ad attraversare tutta Trieste dirigendosi verso le colline.

Questo gli avrebbe richiesto una discreta parte di tempo soltanto per arrivarvi e tornare indietro. Altra motivazione che aveva sempre spinto nel vuoto le labili passate iniziative.

Cammarata però era un uomo che manteneva gli impegni presi quando decideva di assumerseli.
E non avrebbe lasciato cadere negli accantonati l’ennesima telefonata fatta da Borromeo in commissariato.

Lo aveva incrociato soltanto un paio di volte durante quei mesi (nella decina totali in cui si era presentato), mentre lo stesso veniva spinto dai gendarmi di turno a far ritorno a casa. Che presto qualcuno si sarebbe occupato del suo caso.

Ma mai nessuno lo aveva fatto, promettendo il niente nella consapevolezza di farlo.
In ambedue le occasioni gli era parso un uomo disturbato, inquieto.

Viveva solo in una sperduto casolare dei colli triestini e, seppur non fosse considerata una persona pericolosa, veniva evitato dai suoi stessi concittadini.

Troppo assorti nella loro quotidiana normalità per prestare attenzione ad una ostentata creatività mentale.

Il poliziotto che aveva ricevuto la telefonata la sera precedente, si era detto in qualche modo sorpreso
«Il solito vecchio mattacchione che vede gli spiriti dei boschi! ..Ma stavolta, invece che aver paura come dice sempre di avere, sembrava persino… contento! Voleva avvisarci di stare tranquilli… che aveva risolto tutto lui. E non ci avrebbe più dato fastidi. Che matto….».

Il commissario Cammarata diede le disposizioni ai suoi uomini per il resto della mattinata.

Non disse ad alcuno dove fosse davvero diretto. Conoscendoli sapeva che avrebbe alimentato soltanto delle inutili chiacchiere di cui non avvertiva bisogno.

Di corporatura tozza e robusta ma con un’agilità quasi inusuale per i suoi quarantacinque anni suonati passati dietro le scartoffie di ufficio, salì sull’auto per recarsi all’abitazione del Borromeo.

Costeggiò per prima la parte della cittadina che dava al mare regalandosi alla vista un paesaggio rinomato e ricco di suggestioni.

Tipico dei paesi che per un disegno preciso della mano umana e della stessa natura donano acqua e montagna nel volgere di uno sguardo.
Superò la zona del vastissimo porto trasbordante di attività commerciali.

Cuore dell’economia triestina.
Sfiorando Sgonico e la sua Grotta Gigante, caratteristiche della zona carsica generosa di attrattive.

Quindi svoltò verso il Monte Lanaro e la sua Riserva Naturale, colma di aree collinari e boschive.

L’abitazione di Michele Borromeo si trovava nella parte meridionale. Tra vaste zone coperte dai pini neri, gatti silvestri e ricci europei.
Nel luogo veniva segnalata anche la presenza di alcuni orsi bruni e degli sciacalli.
“Un paradiso per naturalisti” meditò il commissario.

«Michele… Michele… sono il commissario Cammarata… Michele…»
annunciò a gran voce parcheggiando l’auto al termine della strada percorribile e costringendosi a quindici minuti di cammino prima di giungere in vista del casolare in legno.

L’abitazione enunciava una sua modesta dignità racchiusa tra sasso e quercia, sotto un corto spiovente pergolato accerchiato da rampicanti.

Non sentendo risposte, l’ufficiale di polizia si costrinse ad entrare trovando, con sorpresa, l’uscio schiuso.
L’arredamento interno, privo di inutili orpelli e ridotto all’essenziale, si presentava vuoto di presenza d’uomo.

Non riscontrò tracce di effrazione. I piatti riposavano sulla mensola al pari delle pentole da fuoco. Il gas chiuso, come in previsione di un’assenza prolungata. Il camino chiuso dai parapetti in ferro a consolidare l’ultima teoria.

L’entrata principale, formata da un corto corridoio, dava sul salone che fungeva da cucina e camera da soggiorno principale.

Sul lato destro una ripida scala dai gradini in frassino conduceva alla camera da letto, da cui nessun suono proveniva. Il commissario fece una rapida ed accurata perlustrazione visiva della casetta, seppure l’impressione dominante di abbandono stesse già comodamente riposta nei suoi pensieri.

Finchè decise di dedicarsi al biglietto già adocchiato appena entrato e bloccato da un vaso al centro del tavolo del soggiorno.

Era un messaggio lasciato lì dallo stesso padrone di casa. Riconobbe la particolare calligrafia già veduta sui rari rapporti compilati in centrale e le cui copie giacevano allegate al fascicolo degli accantonati.

«Finalmente…. il vento mi ha ascoltato!»
Lesse. Rimase per qualche istante con il foglietto tra le dita ed estrasse il cellulare per chiamare i suoi uomini.

Michele Borromeo avrebbe infine goduto dell’attenzione che meritava. Per la prima e ultima volta………..

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Chiedi la luna

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Passare per colle Oppio costituisce una meta romantica ed al tempo stesso piena di speranze per le giovani coppiette dedite ai sogni più azzardati ed alle mete più ambite.

Il parco del colle, situato tra antiche chiese e torri romane, venne realizzato negli anni Trenta con il Colosseo a fare da sfondo.

Tra le ricche testimonianze medievali, in un’ala inferiore del parco sorge un pozzo dei desideri.

Qui Alessia e Fabiano danno voce alle loro fantasie gettando all’interno della profonda cavità varie monete di euro. Complici e protagonisti di una storia d’amore adolescenziale come tante, non ancora disillusi dal tempo che verrà.

«Che cosa hai chiesto, amore..?» sussurrò Alessia.
«Quello che chiedo ogni sera, di ogni settimana, di ogni mese da quando siamo insieme… voglio restare con te per tutta la vita!» le fece eco Fabiano.

Si strinsero mano nella mano avvicinandosi l’un l’altra.
E, come ogni sera, si baciarono appassionatamente sulle labbra. Lui dovendo chinare un poco il capo, robusto ed alto come era. Lei alzandosi in punta di piedi per raggiungere le labbra carnose dell’amato.

La loro felicità non richiedeva particolari condizionamenti. Vestivano in modo semplice; un paio di jeans sdruciti e con qualche strappo alla moda, una T-Shirt con raffigurati alcuni idoli musicali, un paio di scarpe da tennis annerite per l’incessante utilizzo.

I pochi spiccioli che passavano per le loro tasche di studenti finivano nei fast-food e dentro il pozzo.

Fabiano cinse la ragazza alla vita, mentre lei poggiò la testa di lato contro la sua forte spalla.
Diedero la schiena alla struttura in sasso che custodiva monete e sogni e si avviarono lentamente verso l’uscita del parco.

Ormai le prime luci della sera avevano fatto capolino trascinando con loro una temperatura frizzantina prossima a salutare l’estate in favore del vicino autunno.

Sicuramente il luogo così suggestivo immerso nel verde contribuiva ad alimentare la fama del pozzo presso gli innamorati. Ed attorno ad esso si erano venute a creare delle crescenti leggende.

Leggende che narravano di amori perduti e ritrovati, di periodi di serenità a discapito delle sconfitte avversità.

Credenze popolari che non potevano toccare di meno il disincantato Vittorio.

Al pari dei ragazzi che ogni sera giungevano sino alla rinomata struttura seminterrata per affidarvi le loro più vivide fantasie, lui visitava il parco di Oppio nascondendosi tra i pini di dettero.

Non aveva nulla di particolare da celare agli occhi dei visitatori. Ma preferiva passare comunque inosservato e lasciare agli altri l’aspetto puramente turistico del luogo.

I meravigliosi giardini, nonostante un avanzato degrado ambientale, fornivano ancora motivo di ammirazione tra gli sguardi, come le fontane e i portali d’accesso disposti all’interno del perimetro nell’area della Domus Aurea.

Vittorio conosceva la zona avendo lavorato per molti anni come custode delle rovine archeologiche. Ogni interstizio, ogni alveolo eran privi di segreti per le sue necessità.

Il pozzo dei desideri comprendeva tali conoscenze.

L’opera, scavata nel tùfo litoide per una profondità di svariati metri, era totalmente priva d’acqua. Ed il suo incavo si collegava ad una parete perpedendicolare direttamente al suo fondale.

Per raggiungerla occorreva aggirare la parte esterna del parco ed attraversare un’arcata in rovina circondata da rovi pieni di aculei con all’estremità delle rose color giallognolo pallido.

Ormai pensionato da cinque anni e già sui settant’anni suonati, l’uomo non si faceva alcuno scrupolo di sorta nel varcare la piccola galleria che conduceva ad una pesante porta in ferro con i cardini consumati dal tempo.

Prelevò dalla tasca posteriore una piccola torcia a batterie e proseguì.

Superato quell’ostacolo si immetteva in un altro corto passaggio che attraversava la zona meridionale dell’Oppio romano.

Da qui gli era sufficiente scendere alcuni gradini in marmo antico che avrebbero dovuto restare vietati ai non addetti ai lavori; un divieto che lo faceva sorridere sarcastico.

Periodicamente compiva il preciso tragitto sino ad una piccola botola dal chiavistello arrugginito e dal metallo impolverato che apriva con grande attenzione.

Oltre la botola raggiungeva le monete che i ragazzi gettavano verso il fondo del pozzo infilandoci lo scarno braccio.

Rubava i sogni.

“Che sciocchezze!” meditava divertito giudicando l’ingenuità altrui.
“Vengono qui… chiedendo la luna!
Credendo che basti questo per raggiungerla…. Crescerete, stupidi, crescerete anche voi. E capirete che la luna non si può raggiunegere… mai!” concludeva il pensiero.

Le monete raccolte finivano per arrotondargli la pensione.
“La gente non immagina neppure quanti soldi si possono guadagnare senza fare troppa fatica…”
ridacchiava divertito.

Poi qualcosa richiamò il suo interesse.

Non un suono od una voce. Bensì una sensazione indefinita di uno spostamento dell’aria stessa.
Se gli fosse arrivato qualcuno alle spalle, ipotesi remotissima dato l’orario ed il luogo, ne avrebbe udito i passi.

Eppure l’improvviso turbamento che lo opprimeva meritava uno scrupoloso riguardo.
L’istinto lo avvisava di questo. E tra le qualità dell’uomo vi era anche quella di non ignorare quanto le percezioni gli dettavano.

Rivolse la torcia verso il cunicolo che si trovava alle sue spalle nella ricerca di un elemento fuori posto che confermasse i suoi dubbi.
Ma non scorse nulla di anomalo.

Seppure irrequieto, si costrinse a girarsi di nuovo per raccogliere le monete oltre la botola.
Fece in fretta però. Grattando la superficie piena di sassi, polvere e sporcizia che rappresentava il fondo della struttura.

Estrasse un piccolo sacchetto in nylon dalla tasca destra e vi ripose le monete.
Solitamente si soffermava a contarle con cupidigia. Ma non quella sera.

Preferiva tornare all’aperto il più presto possibile, poichè la strana ed indefinita sensazione che lo aveva colpito prima sembrava aleggiare ancora nella sua mente.

Finchè lo sentì.
Dapprima come un basso lamento, poi sempre più incisivo alle sue orecchie; il riso di un bambino.

Vittorio non capiva.
Era assolutamente assurdo che un bimbo fosse finito lì, pericoloso.
Fece qualche passo all’indietro, orientandosi verso quel suono, comprendendo che proveniva a tergo di lui.

E lo vide a pochi metri di distanza.
Il bambino avrà avuto si e no cinque anni, dalla bionda chioma ed il volto paffuto.
Rideva allegro, racchiudendo negli occhi la solarità e l’innocenza dell’età.

«Come… come se arrivato qui, piccolo…?»
gli chiese Vittorio avvicinandosi di qualche passo, esitante. Riuscendo a distinguerne i freschi tratti del viso.
Il bambino gli sembrava molto familiare, gli sembrava persino di riconoscerlo.

«Matteo…. dove sei finito?»
sopraggiunse una voce di donna vicina.

La giovane che comparve subito dopo poteva avere sui trent’anni.
Ed anche lei non era sconosciuta agli occhi di Vittorio.

Ma, se nel primo caso la sua idea era soltanto quella di un presentimento impalpabile, la ragazza gli ricordava invece incredibilmente una persona conosciuta molti anni prima
«Francesca…?»
sussurrò sbigottito.

“Non può essere Francesca…. cosa vado a pensare…. è.. è assurdo!” cercò di convincersi.

Lei posò una mano sulla spalla del bambino.
Vestiva modestamente, come il piccolino, un leggero vestito dai toni vivaci ed arancioni costellato di fiori. La nera chioma raccolta in una coda e fissata da un fermaglio argentato spioveva sino alle spalle.

No.
Non poteva sbagliarsi; quella donna non poteva essere altre che Francesca. Colei che lo amava, probabilmente la sola donna ad averlo fatto davvero. Colei che lui rifiutò per dedicarsi ad una vita solitaria ed egoistica.

E quel bambino?
Chi mai poteva essere quel bambino…?
Un brivido freddo gli percorse la schiena… rammentando i sogni, le parole, le promesse di due giovani ragazzi.

Portò la mano alla fronte, premendo con due dita le stanche e folte sopracciglia sbiancate dalle tante stagioni trascorse al mondo.

Quando tolse la mano tornando a fissare davanti a lui, la ragazza ed il bambino erano spariti.
Non li rivide più.

Scosso come non gli succedeva da tempo incalcolabile, si avviò verso la strada del ritorno.
Dimenticando a terra il sacchetto di nylon con le monete.
“Tornerò domani a prenderle” si disse “Tornerò domani…..”

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La passione del ciliegio

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Non c’era nessuno attorno a loro nella campagna piemontese.
Il prato appariva il luogo ideale per la passione che avvertivano crescere dirompente nei loro corpi.

Un desiderio naturale che li avvolgeva rischiando di consumarli, come fossero candele di cera colpite da un calore devastante ed insopprimibile.

Corrado strinse forte la mano di Monica, quasi facendole male.
Un gesto spinto dal fuoco divampante dentro di lui, dall’ingordigia e cieca bramosìa che lo affamava.

Lei non avvertì il dolore della stretta.
Solo un leggero fastidio cui non diede alcun peso, mitigato dalla stessa eccitazione che muoveva Corrado.

Erano giovani.
Erano amanti impazienti di dissetarsi.

Lui la spinse a sè con maschia decisione.
Dando persino l’impressione di compiere un’azione brutale.

Monica non attendeva nulla di più, nè nulla di meno da Corrado.

Alto e moro, di carnagione abbronzata da una vita vissuta all’aperto tra i campi e gli alberi in frutto.
Tutto il suo corpo sprigionava vitalità.

Gli occhi del ragazzo le apparivano due braci scure immerse in un incendio di voluttà infinita.

La forza di quel corpo così maschile non derivava dai muscoli.
Ma dalla carica delle sue nervature incredibilmente pulsanti di sangue acceso.

Monica lo aveva percepito sin dalla prima volta in cui lo aveva visto.

E ne fù subito perduta.

Lei così morigerata per merito di un’educazione famigliare rigorosa, rinacque immediatamente tra le sue passionali braccia.

Rinacque schiudendo la crisalide in cui si trovava con un prepotentemente dolce battito d’ali. Liberando un impeto aggressivo che le permetteva di assalirlo mordendo le parti del corpo dell’amato.

Di carnagione scura quanto Corrado, ma per una caratteristica della pelle ben più naturale, era sovrastata dalla sua pronunciata altezza.

Un corpo esile con delle curve ancora acerbe e non totalmente mature, la faceva sembrare una ragazzina ben più giovane di quanto comunque già non fosse.

La sua cascata di capelli corvini venne mossa bruscamente dalla presa dell’amante impaziente.

Le loro labbra si scontrarono morbidamente suggellando una tacita promessa d’amore.

Il primo contatto che permise di congiungere i loro esseri separati in una iniziale comunione.

Si staccarono.
Uno fronte all’altra, fissandosi reciprocamente negli occhi, senza inutili parole.

Poi tornarono a baciarsi.
E l’impeto di Corrado spinse a terra la sua amata.

Rotolarono nell’erba fresca che sapeva ancora di rugiada. Travolgendosi. Travolti.

I vestiti presero a cadere.
Denudando dei corpi che per loro rasentavano la perfezione assoluta, baciandosi ogni spicchio di pelle esposta alle bocche avide.

Avvinghiati. Delle edere di carne che salivano espandendosi ovunque.

Ormai completamente nudi, con la sola collina alle spalle a proteggerne l’intimità, con materasso di un letto improvvisato dei profumati fiori di campo.

E Corrado li colse.
Afferrò delle rose, incurante delle spine che tagliarono la sua pelle scura.

Iniziando a strapparne i petali rossi per spargerli sulle nudità di Monica, componendole un labile vestito.
Carezzandole il viso con una dolcezza da innamorato perduto.

Lei lo attirò allora a sè. Gli addentò il collo con piccoli teneri morsi alternati con forza, graffiandogli la schiena.

Non poteva attendere oltre. Sollevò il capo sforzandosi verso di lui, enunciando con lo sguardo il suo desiderio di donna.

Solo allora Corrado la fece sua.

Entrò in lei con la tenerezza cui l’aveva abituata, sostituendosi allo stelo del fiore cui aveva tolto i petali, strappandole un gemito di infinita gratitudine.

E si abbandonarono nella melodia dell’amore.

Certi di aver occultato al mondo intero la loro intimità d’amanti.

Sulla collina, silenzioso guardiano degli ardori della passione, il ciliegio ricopriva con la propria ombra prolungata i corpi nudi.

Così come aveva fatto con il padre di Corrado.

Così come avrebbe continuato a fare con il figlio.

Il fragile fusto adornato da piccole gemme di frutto nascoste tra i fogliami, restava assorto ad osservarli.

Ne avrebbe custodito gelosamente il segreto.

Poichè questo aveva sempre fatto.

Racchiudendo dentro sè la loro immensa passione e facendola sua.

La passione del ciliegio che chiunque avrebbe potuto scorgere nella bellezza del suo ciclo naturale……………..

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Ti aspetterò nel pomeriggio…

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La ragazza entrò nel bar di Adelmo alle tre del pomeriggio, come usava fare ogni giorno.

A quell’ora il locale era quasi deserto.
Nonostante si trovasse in una zona piuttosto frequentata del capoluogo toscano a ridosso con il centro storico, il cattivo tempo sembrava consigliare alle persone di restare chiuse tra le mura degli uffici o delle proprie case.

Pioveva incessantemente da almeno due ore.
Gli scrosci d’acqua aumentavano di intensità con rari momenti di tregua. Ed il fiume Arno minacciava di voler raggiungere gli argini nell’arco di quella stessa giornata, incentivato da una settimana all’insegna delle continue precipitazioni diurne e notturne.

Caterina si sfilò il lungo impermeabile posandolo sullo schienale della sedia al suo fianco, mostrando un vestito bluette con un pizzo ricamato sul petto che terminava in una gonna lunga sino al ginocchio.
Un paio di stivali eleganti dal tacco basso non impedivano alla sua statura di evidenziarsi.

I capelli scuri e mossi arrivavano alle spalle incorniciando un viso che, dal profilo visibile, appariva costituito da tratti delicati e sereni.

“Una ragazza che non passa inosservata…”
rilevò Gastone restando immediatamente colpito per il suo portamento molto femminile ed accattivante.

Al primo giorno di servizio nel bar di Adelmo era ancora piuttosto impacciato.
Si barcamenava dietro il bancone con il fare tipicamente incerto che contraddistingue le persone quando affrontano un nuovo impiego.

Forte di una bella presenza ed un fisico sportivo si era aggiudicato il posto senza troppi problemi.
Ne aveva bisogno per pagarsi gli studi universitari ed il monolocale affittato a diversi minuti dal centro.

Ma cercava di godersi comunque l’età della giovinezza vivendo la Firenze notturna, con i suoi locali e le facili amicizie.

La ragazza non dovrebbe aver avuto che una manciata d’anni più di lui, pensò.

E c’era qualcosa in lei che lo aveva attratto da subito, sebbene non riuscisse a definire concretamente di cosa si trattasse.

Vide Adelmo lasciare il suo posto dietro il bancone e dirigersi da lei per prendere l’ordinazione.
Scambiare qualche parola, segno di una conoscenza non nuova, e ritornare verso di lui.
«Grazie, Adelmo… aspetterò qui… nel caso passasse nel pomeriggio…»
sentì proferire la giovane al tavolino.

“Che stupido!”
si disse mentalmente.
Per un po’ aveva pensato di trovare l’opportunità di raccogliere, magari, una seconda ordinazione
(e non capiva come mai il gestore non avesse approfittato di quel cliente per metterlo subito alla prova).
Ma, ovviamente, una ragazza così carina doveva essere già impegnata.
E quasi certamente la persona attesa doveva essere il suo ragazzo.

Così Gastone accantonò i baldanzosi propositi
“massì… che cavolata; mettersi ad abbordare una ragazza al primo giorno di lavoro.. una cliente!”.
Scosse la testa sorridente, ironizzando su quanto aveva meditato.

La pioggia faceva eco ai pensieri della grigia giornata.
Cadendo tambureggiante sul pavimento marmorizzato che componeva la via al di là delle vetrate.

Caterina sembrava assorta ad osservarla.
L’incessante crepitìo formava a terra dei piccoli mulinelli circocentrici spezzati dai passi veloci di chi attraversava la strada rinchiuso stretto in fradici impermeabili.

Nel bar i pochi clienti si stavano affrettando a consumare le loro ordinazioni.
Anonime ombre destinate a passare senza lasciare traccia.

Adelmo si recò ancora al tavolino della ragazza dal vestito bluette.
Probabilmente a Gastone era sfuggito il suo richiamo, o forse si era fatta notare con qualche cenno del capo, poichè lui non si era accorto di nulla.
Si offrì di portare il cappuccino ordinato.
Ma il gestore si dimostrò risoluto a farlo egli stesso come la volta precedente «Servo io Caterina, non ti preoccupare…» gli rispose pacato ma dal tono irremovibile.

Il ragazzo aveva cercato di lasciarsi la questione alle spalle.
Ma ora, quella forzata insistenza da parte del suo principale, cominciava a destare maggiormente la sua curiosità.
Lei ci mise del suo, ripetendo la stessa frase priva di inflessioni preoccupate nonostante la persona attesa non si facesse ancora vedere
«Grazie, Adelmo… aspetterò ancora… potrebbe passare nel pomeriggio…».

Gastone desiderava capire.
E si impose di farlo ricercando il momento opportuno per parlare con Adelmo. Di corporatura tondeggiante e basso di statura, l’uomo non si manifestava come una burbera persona, e certamente era a conoscenza del mistero che sembrava aleggiare attorno a Caterina.
Decise di attendere che la ragazza fosse uscita.
Dopotutto si eran fatte ormai le cinque del pomeriggio e, dopo due ore di attesa, anche lei si sarebbe resa conto che chi stava aspettando non si sarebbe fatto vivo quel giorno.

Trascorse un’altra mezz’ora abbondante. Poi Caterina lasciò il tavolino, si infilò di nuovo l’impermeabile, e si fece avanti per pagare.
Soltanto allora Gastone potè notare il profilo del volto tenuto nascosto alla sua vista; una lunga cicatrice segnava la tempia della ragazza attraversando tutta la guancia destra.

Il cameriere rimase senza parole
«Se dovesse passare… gli dica che sono appena uscita… e che tornerò domani… domani pomeriggio..»
disse rivolta ad Adelmo che le stava passando lo scontrino.
Attese un cenno affermativo del capo e l’abituale comprensivo sorriso che il gestore le donava ogni giorno.

Poi uscì dal bar.

Il ragazzo impallidì, dimenticando quanto si era persuaso domandare al suo superiore.

«Caterina passa ogni pomeriggio.. Sia che piova, che ci sia una bufera o che ci sia un sole da spaccare le pietre.
Ogni pomeriggio non manca di passare… e di fermarsi per un paio di ore, rimanendo a guardare oltre la vetrata»
gli disse Adelmo interrompendo l’imbarazzo del giovane.

«Io…. io non…»
«Oh, lascia stare.. Tanto presto o tardi avresti sentito delle chiacchiere. Preferisco dirti io come stanno le cose, ed è meglio farlo subito…»
lo bloccò il gestore alzando una mano per evitargli inutili scuse.

«Come ti dicevo…. Lei passa di qui tutti i santi pomeriggi. Da quattro mesi a questa parte…»
proseguì Adelmo sospirando e sistemandosi i pochi capelli bianchi che ancora adornavano la sua testa
«….E’ bella vero…?!
…..Da quando è successo l’incidente…….
prima dell’incidente era persino… splendida….
E’ finita oltre il vetro.
Ed il massimo che hanno saputo fare i medici è stato… quello!»
affermò facendosi un segno sulla guancia destra.

Gastone cercava di non mostrarsi turbato, ma gli risultava un’operazione piuttosto ardua
«Ma…. chi è la persona che lei… aspetta ogni… pomeriggio…?»

Adelmo inarcò un sopracciglio e la sua espressione divenne ancor più seriosa e cupa di quanto già non fosse
«La persona…?…..
Era… suo marito. Frequentavano moltissimo il mio bar, prima di sposarsi.. per i pochi mesi che lo sono stati.
Forse ha avuto più fortuna di lei….. ma… chissà…».

Il giovane cameriere vide Adelmo dirigersi verso un tavolino appena occupato da due anziani. Questa volta il motivo per cui risparmiava il servizio al dipendente era diverso.

Gastone, pallido in volto, si appoggiò al bancone. Non avrebbe mai scordato il suo primo giorno di lavoro.

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Leggero veneziano

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Nascosto dalle bancarelle dei turisti giaceva seduto sui propri talloni sopra il ponte di Rialto.

La giornata prometteva un tiepido e timido sole ad infrangere i rigori dell’inverno veneziano, ma lui non ne poteva ormai beneficiare.

Era giunto al termine della sua vita.
Lo avvertiva.
Il respiro affannato sollevava lievemente i vestiti ridotti a stoffa consunta.
L’imbottito pastrano scuro lo ricopriva poggiandosi con i lembi sul terreno calpestato da infiniti passaggi, ed uno scolorito maglione di lana a righe faceva bella mostra di sè, ricucito e logoro in svariati punti.

I pantaloni, sgualciti allo stesso modo, erano strappati alle estremità inferiori.
Ed un paio di vecchi scarponi dalle suole consumate e lisce gli riscaldavano a stento i piedi; ormai due pezzi di carne che sentiva sempre meno parte del corpo.

Il senzatetto era stanco.
I segni dell’età parevano moltiplicarsi in tante rughe lungo il viso temprato dallo scorrere delle stagioni.

Eppure la vita procedeva intorno a lui e senza di lui. Separato da essa per una mente ritenuta folle.

Il vociare echeggiante dei mercanti si espandeva attraverso le calli e i canali della città, un intrecciato groviglio di vene pulsanti che ne componevano l’anima superando gli argini.

Dalla mano ormai inerte dell’uomo scivolò via una piccola pallina di gomma color verde.

La pallina prese a rotolare sopra il marmo compiendo alcuni piccoli balzi per inerzia.

Sfiorò le gambe dei passanti, leggera.
Proprio come l’acqua di piazza San Marco bagna le suole e lambisce dolcemente le caviglie.

I balzi diminuirono di intensità.
Incrociando le gambe di due innamorati abbracciati al lato del ponte, cozzando delicatamente contro i loro tacchi e riguadagnando nuovo vigore.

Prese quindi a rotolare.
Dapprima incerta. Il moto poco convinto e lento, quasi ad annunciare la sua definitiva sosta tra i solchi del marmo lavorato.

Poi avvalendosi dello spostamento d’aria concesso dalle ali di un piccione a volo radente.

Il volatile, proveniente dalla piazzetta adiacente allo stabile in stile gotico-veneziano dalle sfumature bianche e rosa che è Palazzo Ducale, era abituato a convivere con la folla numerosa.

Ma quell’oggetto in gomma rappresentava comunque un evento inconsueto nella tranquillità delle sue giornate.

Così, vagamente turbato per l’incontro, compì una vigorosa virata un attimo prima di toccare il suolo per riconquistare il cielo.

La pallina dal vivace color prato, si ritrovò a girovagare assimilando quella nuova spinta offertagli dal fugace piccione.

Tanto che il suo moto incerto guadagnò fiducia ed ardore.
Mentre sotto il ponte passava una veloce gondola condotta da un rematore che vogava alla veneta, rivolto verso la prua, con una coppia di ragazzi. L’oggetto di gomma riprese il suo cammino.

Superò un gruppetto di studenti diretti all’Accademia che discorrevano animatamente sulla pittura di Tiziano e del Tintoretto.

Oltrepassò due anziane turiste intente a fantasticare sull’opera di Andrea Da Ponte che concesse la possibilità di attraversare così Canal Grande.

Lambì gli eleganti negozi di lusso situati sul corpo centrale di Rialto che esponevano ogni tipo di mercanzia e souvenir.

Le botteghe artigiane che disponevano delle maschere del carnevale di Venezia, dei merletti della vicina Burano e dei vetri della rinomata Murano.

Poi toccò il primo scalino.
Acquisì allora una nuova spinta verticale che gli permise di conseguire maggiore rapidità.

Rimbalzò al secondo scalino, quindi al terzo, al quarto.

Se avesse potuto sentire sarebbe rimasta assordata dalle voci crescenti dei pescivendoli sottostanti.

Il pittoresco mercato del pesce e della verdura rappresentava, alla fine del ponte nel sestiere di San Paolo, l’avanguardia per raggiungere la più antica chiesa veneziana. La chiesa di San Giacomo.

La babele di voci e suoni che scaturiva dal brulicare dei turisti rendeva insidioso l’avanzare.
Svicolare tra una moltitudine di piedi giapponesi, francesi, inglesi, spagnoli e di chissà quante altre razze consisteva in un autentico atto di spavalderia per la minuscola pallina.

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Eppure, rimbalzando qua e là, non si arrestò.

Giunse alla fine della lunga scalinata di Rialto, proeseguendo verso la pescheria ed il vicino ristorante Poste Vecie, parte del cuore di Venezia.

Poi, inaspettatemente, urtò uno spigolo nel marmo che ne fece modificare la traiettoria.
Scontrare con il margine in cemento che separava il tratto di percorso con delle calli attigue.

Una piccola mendicante seduta che raccoglieva l’elemosina divenne la sua nuova meta.
La ragazzina con sfoggianti abiti in seta dai colori dell’arcobaleno, il fisico emaciato e le gote rosse, venne toccata con leggerezza dalla pallina vivace e dai toni dei prati.
La raccolse curiosa, sistemandosi i disordinati capelli corvini, tirandosi via dagli occhi una ciocca ribelle.
E si rialzò.

Diede uno sguardo attorno a sè e, notando l’avvicinarsi di un nutrito gruppetto di stranieri, prese a danzare con il piccolo oggetto in gomma chiuso nella mano.
Le gambe magre ma irrobustite dal continuato movimento.

Prese a danzare.
Librandosi leggera nel fruscìo del vento.
Lasciandosi trasportare dalla vita.

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