Prot – file 13 di 13

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Angela si mosse risvegliata dalla voce gutturale del suo seviziatore. Credeva di essere morta. Ma il viso gonfio ed arrossato, il bozzolo dietro la nuca, le confermavano il contrario. Le ci volle qualche istante per recuperare lucidità, per rammentare la figura spaventosa del criminale comparsa all’improvviso nel salottino. Il terrore riaffiorato dagli angoli remoti del suo cervello. Un orrore nascosto, respinto da qualcosa o da qualcuno. Eppure vivido e palpabile come un ferro rovente ed affilato.
Si trascinò facendosi forza sui gomiti. Ancora troppo stordita per il pugno ricevuto. Perchè era ancora viva quando tutto le faceva presupporre di non doverlo essere?
Poi mise a fuoco i pensieri.
Lui l’aveva colpita allertato da un movimento esterno. Forse di Cheyenne (come poteva essere sfuggito al Pit Bull?), o di Rowena. Ma la governante non gli avrebbe mai permesso di entrare in casa.
Rabbrividì. Di sicuro qualcosa di spaventoso doveva aver fatto alla donna.
Guadagnò metro dopo metro. Rapidamente. Debolmente ma caparbia. Qualsiasi elemento esterno avesse distratto il pazzo criminale poteva fornirle un aiuto insperato. Per quanto desiderasse solo farsi piccina e sparire da quella casa. Tuttavia poteva trattarsi di suo padre. L’unica persona in grado di salvarla.
Giunse sullo stipite della porta d’ingresso impreparata alla raccapricciante visione che l’attendeva: suo padre era davvero lì. Con un fucile puntato contro.
Reagì d’istinto. Senza alcuna ragionevolezza. Spinta da una serie di emozioni sfuggevoli fatte di rabbia e spavento. Afferrando la gamba vicina dell’uomo armato, sbucando dalle ombre della notte.
«Noooooooooooo…..»
urlò chiudendo gli occhi e stringendo con ogni oncia di forza che aveva nel piccolo corpicino. Cogliendo di sorpresa il pluriomicida, sbilanciandolo per la frazione di un attimo. Ne ricavò di fornirgli un nuovo bersaglio; le canne del fucile gravarono contro il suo viso.
Armand Constantine colse l’unica occasione propizia degli ultimi minuti e travolse con il suo peso l’assassino. Non c’era il tempo di estrarre la pistola dalla fondina, non si trovavano sul set di un film dove i buoni fanno le cose giuste al momento giusto. Nello slancio i due uomini rotolarono oltre i gradini, in una furente collutazione per impadronirsi dell’arma. I due corpi finirono avvinghiati in braccia contorte, in mani nervose, in fiato spezzato. Poi partì un colpo.
Il silenzio della notte attorno venne bruscamente scosso nelle sue fondamenta. Angela, incapace di tornare a muoversi, osservò padre e nemico immobili. Con occhi sgranati per strappare una fessura alla luna ingenerosa.
E con il cuore in pezzi vide Mark Littercrown alzarsi ed avanzare ancora verso di lei.
«Abbiamo ancora un conto in sospeso, piccola… ed intendo saldarlo adesso!»
Le si avvicinò di qualche passo e risollevò l’arma portatrice di morte. Il suo volto scavato appariva come un teschio crudele nella fioca luce dei saltuari raggi lunari.
Angela iniziò a piangere. Senza rendersene conto singhiozzava.
Per la scia di morti seminata dall’assassino, per suo padre immoto a terra. Per se stessa.
Fu allora che si avvertì il suono.
Dapprima lento e fugace. Poi sempre più deciso e fastidioso. Costringendo la figlia dello sceriffo a portarsi le mani alle orecchie. Abbassando il capo. Quindi giunse la luce. Feroce. Insopportabile. Avvolse ogni cosa attorno. Un manto argentato che scacciò via la notte.

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«Abbiamo molta strada da fare, Mark… devi venire con me.»
Esordì una voce al di là del bagliore accecante, con tono pacato e basso, che Angela percepì come timbro indecifrabile, sparito il rumore di fondo iniziale. Ebbe la netta sensazione di leggere un’espressione di puro terrore nel viso scavato da teschio di Littercrown, che tentò inutilmente di urlare; ma il fiato gli si spezzò in gola. Un’espressione che anelava la morte come utopistica via di fuga. Intuendo che il fato riservatogli sarebbe stato ben più crudele. In un lampo; la luce, il pluriomicida e la voce nel bozzolo luminoso, svanirono. Liberando le tenebre.
Lo sceriffo Constantine tossì. E la figlia gli corse incontro.

Non rividero mai più Mark Littercrown.
Non seppero mai cosa fossero le voci che sentiva, attribuendole semplicemente al quadro clinico di un pazzo che in qualche modo aveva trovato la strada per giungere al ranch. Nè seppero dare delle spiegazioni alla sua sparizione. O a quella di Prot.
Ci vollero diverse settimane per guarire dalla ferita d’arma da fuoco. Un tempo ragionevole se paragonato alla sorte di Rowena, Cheyenne e di tutte le altre vittime. Un tempo persino maggiore ad Angela per recuperare la necessaria stabilità. Eppure, dentro di sè, Armand Constantine era certo che Mark Littercrown stesse pagando un prezzo molto alto….

Il 26 luglio dell’anno successivo, su un lunghissimo rettilineo asfaltato e cosparso dalla polvere del deserto vicino, una corriera lasciò scendere dalla sua corsa un solo cliente.
La zona impervia rendeva perplesso l’autista.
«E’ proprio sicuro di voler scendere qui..? Tra trenta chilometri raggiungiamo la cittadina di Hellmiss…»
«Si, sono sicuro..» gli rispose, voltando lievemente il capo verso il conducente. Mentre sistemava sulla spalla un piccolo zainetto.
«Ma qui intorno c’è solo il deserto dell’Arizona. La prossima corriera non passerà prima di domani…»
«Grazie. Domani andrà sicuramente bene…»
concluse, accennando un debole sorriso. L’uomo allora, scosse la testa e riavviò il pesante mezzo, chiudendo le porte.
La cometa di Kajaswok era passata a meno di tre milioni di chilometri dalla terra, quasi un mese prima. Alcuni erano già impazziti, influenzati dalla sua scia malevola. Qualcuno si limitava ad uccidere il vicino di casa, un membro della propria famiglia. Altri divenivano spietati assassini o, peggio, si tramutavano in killer più folli di quanto già non fossero. E chiunque la vedesse nello stesso istante, restava indissolubilmente legato all’altro. Imprigionato tra i fili del fato. Eventi ricorrenti nella natura umana. Influenzata dalle stelle.
Ma nessuno gli avrebbe creduto. Nessuno gli credeva mai.
Una statuina, sospinta anche dalla folata del vento, scivolò fuori dallo zainetto. Ma venne prontamente afferrata, prima di guadagnare l’impatto con il suolo. I lineamenti del manufatto, di materiale simile alla ceramica, ricordavano vagamente quelli di un uomo. Dal viso scavato, simile a quello di un teschio. Una mimica di panico dipinta nello sguardo smarrito.
«Non hai ancora imparato, Mark? Oh, non preoccuparti: abbiamo ancora tanto tempo da trascorrere insieme…».
 
Incamminandosi lungo la strada e assaporando il calore del sole sulle lenti scure dei suoi occhiali, Prot rimise la statuina tra le altre. Aveva poco meno di ventiquattrore a disposizione. Prima che le stelle fossero allineate, a disegnare una traiettoria nello spazio. Prima di ripartire di nuovo…

Prot vi saluta così…..       http://stat.radioblogclub.com/radio.blog/skins/mini/player.swf


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Prot – file 12 di 13

La notte circondò con una cappa di nubi oscure il volto rassicurante della luna. Ed il ranch dei Constantine sembrò svanire dietro una nebbia composta da fuliggine densa e luttuosa.

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Lo sceriffo posteggiò il fuoristrada a diverse decine di metri dallo steccato in legno che segnava il confine ultimo dei possedimenti terrieri della famiglia. Vi arrivò percorrendo un tratto di strada a fari spenti senza eccessive difficoltà. Conosceva a menadito ogni sasso ed ogni arbusto secco dei paraggi.
E desiderava sfruttare l’elemento sorpresa. Naturalmente non aveva alcuna certezza in merito; ma si sarebbe detto sicuro della presenza dell’omicida in casa sua. Raramente veniva colto da sensazioni di pericolo talmente forti. Quando gli accadeva il raziocinio e la logica cedevano il passo all’istinto di sopravvivenza. Temeva il peggio. Cheyenne avrebbe dovuto già scodinzolargli intorno ormai. Ma nessun movimento si decideva a scuotere l’atmosfera cupa e fosca che aleggiava nell’aria stessa. Procedeva cauto e lentamente lungo il vialone ricoperto di cemento che lo separava dalla porta d’ingresso, con tutti i sensi all’erta. Auspicando un qualsiasi segno di vita. Trattenendo a fatica l’irresistibile impulso di chiamare a gran voce la figlia.
Gli occhi si erano ormai adattati alla mancanza di luce, ai sottili raggi di luna che filtravano sul terreno ad ogni spiraglio permesso dalle nubi in viaggio.
Prossimo ai gradini che lo dividevano dalla porta d’entrata vide due masse scure di differenti dimensioni sul terrazzo. Entrambe perfettamente immobili.
Il cuore gli balzò in gola ed il respiro si mozzò; una delle due era indubbiamente umana.
«Ti stavo aspettando, sceriffo…»
lo fece sobbalzare una voce già sentita ed inequivocabile emersa dalle ombre.
«Littercrown!»
pronunciò l’uomo di legge serrando i denti, preparandosi a scattare come una belva ferita.
«Fossi in te non muoverei un altro passo…»
lo bloccò allora il pluriomicida, puntandogli contro le canne di un fucile rintracciato tra le mura domestiche «…Non vorrai fare compagnia al cane e alla negra, vero?!?».
Armand Constantine venne raggelato da una risatina soffocata e comprese a chi appartenevano le sagome dei due corpi senza vita a pochi passi da lui.
«Dov’è mia figlia, maledetto pazzo? Sono stanco dei tuoi giochi perversi! Dimmi subito dove è oppure…»
«Oppure cosa, sceriffo? Proverai a saltarmi addosso prendendoti la dose promessa di piombo in corpo? Oppure proverai a far tacere le voci che sento nella testa?»
«…Voci..?»
bofonchiò il padrone di casa per l’ulteriore conferma dello stato mentale di Mark Littercrown.
«Si… voci! Queste maledette voci che mi tormentano. Disturbano il mio sonno, disturbano la mia veglia. Vanno e vengono, vanno e vengono! Tu, sceriffo… tu sei in grado di farle smettere? Rispondi! Sei in grado di farlo uomo dalla stella di latta??»
lo sfidò sfiorandogli il petto con le fredde canne di metallo. Le dita accarezzarono il grilletto.
Ed Armand Constantine fu consapevole di essere perduto…

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Prot – file 11 di 13

Prot rimase seduto a fissare il muro della cella. Lo sceriffo Constantine già in viaggio da almeno una ventina di minuti, probabilmente ormai prossimo ad arrivare al suo ranch. Non si era rivelata una scelta felice quella di dare un’altra opportunità a Mark Littercrown. Eppure credeva di aver fatto la cosa migliore.

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Trasmettendo parte della sua essenza nella mente dell’omicida era riuscito a sopirne l’istinto aggressivo, permettendo alla sorveglianza di prenderlo in custodia. Così come aveva agito con le tre ragazze ed il proprietario del locale, cancellando le tracce di panico dalle loro menti. L’effetto collaterale consisteva in una parziale perdita della memoria, quel minuscolo file cerebrale che racchiudeva una parte degli avvenimenti più incresciosi. Naturalmente spiegare la situazione allo sceriffo sarebbe stata un’impresa ardua. Prot ci aveva già provato in passato con altri uomini di scienza e di legge. Inutilmente. Era una Cassandra a cui nessuno dava mai ascolto. La logica tende spesso ad essere un’inafferrabile elemento bizzarro nella testa delle persone. E lui, da tempo, aveva ormai capito quanto bizzarre fossero le persone stesse. Per paura.
«Quanto manca alla mezzanotte, signor Sutterville?»
domandò all’armaiolo incaricato di sostituire lo sceriffo nel turno di guardia.
«Hmm..?.. Mancano circa dieci minuti, signor Prot…»
gli rispose questi con aria annoiata dondolandosi sulla sedia accanto alla scrivania.
Il prigioniero sembrò valutare la cosa. Poi si rivolse ancora al proprio improvvisato custode «Le consiglio di non guardare da questa parte tra dieci minuti, signor Sutterville…».
L’armaiolo rimase perplesso per qualche istante. Quindi scosse la testa in segno di insofferenza e tornò a leggere il quotidiano che stringeva tra le mani.
Per i restanti nove minuti, Prot mantenne un rigoroso silenzio. Chiuse gli occhi e sollevò leggermente il capo verso l’alto, quasi ad ascoltare una lontana melodia che soltanto lui poteva sentire. Si alzò un leggero ronzio appena percettibile che dapprima sfuggì a George Sutterville. Finchè non divenne un sibilo acuto e fastidioso che lo costrinse a chiudersi le orecchie con i palmi delle mani in un vano tentativo di protezione. L’uomo si mise in piedi barcollando. Stordito dalla frequenza sonora. Fece appena in tempo a rendersi conto che il prigioniero rimaneva immobile senza battere ciglio. Nella medesima posizione di dieci minuti prima. Si avvicinò alle sbarre. Cercando di parlare. Ma non riusciva ad udire la sua stessa voce. Lo vide infine alzarsi, volgergli un placido sorriso.
L’ultima cosa che riuscì a vedere. Un istante dopo un fascio di luce bianca e di abbagliante intensità avvolse l’intero ufficio. Divorando il detenuto. Divorando ogni cosa circostante.
L’armaiolo venne circondato da pura luce. Una esile figura assorbita dall’argento vivo. Sospesa nel tempo e nello spazio. Per quanto fosse riuscito a distogliere gli occhi evitando presumibili gravi danni alla vista, George Sutterville non vide più nulla per svariati minuti. Sbattè le palpebre e dimenò il capo. La luce sparì come era arrivata portandosi dietro il suono assordante. Quando finalmente il campo visivo risultò sgombro da ogni luminosità residua ed i muri, l’arredo intorno, fecero la loro ricomparsa, scrutò dietro le spranghe verticali della piccola cella. Soffocò un’espressione sbalordita; tutto rimaneva al suo posto. Nulla era cambiato. Tranne Prot.
Poco dopo la mezzanotte del 27 luglio, lui era sparito …

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Prot – file 10 di 13

Armand Constantine chiamò George Sutterville con il cellulare. In assenza del suo vice, ricoverato in ospedale per la ferita d’arma da fuoco, l’armaiolo del piccolo paesino ricopriva il ruolo di aiutante aggiunto. Senza rivestire compiti particolarmente gravosi od ufficiali. Ma fornendo un aiuto di carattere spesso puramente logistico. George era una persona meticolosa e taciturna. L’ideale per appoggiare i due uomini di legge. Giunse con il proprio Ford Ranger Pick UP e la cassettina del pronto soccorso. Lo sceriffo non desiderava allarmare l’amico medico, nè ricorrere al meccanico di Babeltown. La scelta dell’armaiolo comportava anche questo. Diede una fugace occhiata al prigioniero riconoscendolo nel nuovo straniero del posto. Poi fissò il fuoristrada al proprio mezzo aiutandosi con il piccolo argano che aveva montato per le emergenze.

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Si sarebbe assunto l’onere di portarlo all’officina e di prestare l’auto di scorta allo sceriffo.
Appena giunti in ufficio, l’uomo di legge liberò Prot dalle manette spingendolo dentro la cella vuota.
«Posso trattenerti molto più a lungo di quanto tu sia in grado di  immaginare, Prot.. Mi spiace dover ricorrere a questo. Ma mi ci hai costretto!»
«Ma questo serve a farla stare meglio…?»
chiese lui con tono mite e sereno.
«No. Serve a farmi capire con chi ho a che fare! Ma ti vedi…? Ti ho ammanettato, messo in una cella e sei tranquillo come se fossi ad una scampagnata! Mia figlia non ricorda di te. La sua amica Sophie neppure. C’è qualcosa che non mi torna in tutto questo.. Voglio capire che cosa. E ti conviene parlare.»
Prot guardò Armand Constantine dritto in viso. Senza mutare la sua espressione che trasmetteva quiete. Poi si mise a sedere nella panca della prigione. Poggiando le mani sulle ginocchia. Seguendo con lo sguardo i movimenti del suo sorvegliante che stropicciava tra le mani nervose le carte della scrivania.
«Dovrebbe andare a casa, sceriffo… è tardi.»
Chinò il capo verso il petto trattenendo un’imprecazione, quindi riportò gli occhi su Prot. Quell’espressione placida gli suscitava un senso di fastidio. Non si capacitava della beatitudine che leggeva in quel volto. Per quanti uomini avesse incontrato nel corso della sua vita, delinquenti od onesti, era la prima volta che incappava in un individuo simile.
E l’inconsueto lo innervosiva. Specie se toccato negli affetti famigliari. Temeva sarebbe stata necessaria ben più di una notte in cella per farlo parlare. E non poteva trattenerlo oltre le ventiquattrore. Lo sapeva. Probabilmente lo sapeva anche Prot.
Il suono del fax interruppe le sue congetture.
Proveniva dalla Polizia della Contea. Organo di cui il piccolo distretto dello sceriffo faceva parte.
Quando lesse le poche parole racchiuse nel simbolo delle forze dell’ordine sollevò nuovamente il piglio sul recluso.
“Dovrebbe andare a casa, sceriffo… è tardi” ripeterono le parole appena pronunciate, direttamente nella testa del padre di Angela.
Compose ancora il numero di cellulare di George pregandolo di passare per l’ufficio e di rimanervi sino al suo ritorno.
Controllò la pistola che portava nella fondina, scrollando il tamburo, verificandone il corretto funzionamento.
Quindi ripose il fax che annunciava la fuga di Mark Littercrown e si avviò verso l’esterno…

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Prot – file 9 di 13

Raggiungere a piedi la fattoria dei Constantine era costato più tempo del previsto. Era riuscito a farsi dare un passaggio su un furgone malmesso, da un vecchio che passava a poche centinaia di metri dal mezzo distrutto della Polizia di Stato.
Quando aveva riaperto gli occhi pensava di essere morto.
Di essersi finalmente liberato dalle voci.
Ma doveva sapere che non glielo avrebbero permesso. Era stato sbalzato fuori dal blindato, attraversando le porte scardinate nello schianto. Rigettato dalle viscere dell’inferno sul mondo degli uomini. Privo di armi (quelle che aveva scaricato contro i suoi aguzzini in divisa), esplose in una pira di fiamme e fumo, aveva sottratto al vecchio un affilato e lungo coltello da cucina. Lui lo portava nascosto di fianco al cruscotto. Lo aveva usato quando cominciò ad osservarlo troppo, deglutendo per la paura. Scrutando la pelle annerita. Notando i segni lasciati dalle manette sui polsi. La prigionia di cui si era liberato frugando tra le tasche delle guardie carbonizzate e sottraendo il mazzo delle chiavi.
Scaricato oltre un dirupo il corpo senza vita dell’uomo, decise di proseguire a piedi.

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Il fragore del motore gli impediva di seguire la traccia lasciata dalle voci. Ricoprì qualche miglio prima di sentirle di nuovo. Come immaginava erano tornate.
Si mise al centro della strada ed avanzò finchè un paio di fari comparvero ad abbagliarlo. Il mezzo procedeva ad una velocità sostenuta. Troppo per evitare di investirlo o di finire fuori dalla pista. Dedicò al veicolo sbandato qualche breve istante del suo tempo. Portava le insegne delle forze dell’ordine e la cosa lo incuriosiva. Sembrava che le sole persone in grado di rallentarlo si infrangessero contro la stessa energia oscura che lo animava.
Le voci lo avevano guidato sino ad un ranch. Un’insegna, fatta ad arco e sorretta da due travi verticali, riportava il nome dei “Constantine”. Un nome che tra i meandri cupi dei suoi pensieri risultava conosciuto; era quello dello sceriffo che lo aveva catturato per ultimo.
Sorrise maligno. Un nastro sottile che tagliava a metà un volto incavato e duro. Lontano notò una massa scura a quattro zampe sollevar le orecchie, puntandolo. Gli fece cenno con la mano di avvicinarsi, in segno di sfida. In un baleno piombò verso di lui, ringhiando furiosamente, decisa ad attaccarlo. Ma l’oggetto della rabbia del Pit Bull era un bersaglio bizzarro. Gli diede la schiena e si lasciò cadere a terra, supino.
Un atteggiamento che non frenò la carica di Cheyenne, nè gli impedì di compiere il balzo verso la gola dell’intruso.
E quella fu l’ultima azione dell’animale.
Nello slancio non si rese conto che una lunga lama d’acciaio proteggeva il collo dello sfidante.
Rimase a terra per due minuti. Sussurrando parole sconnesse alle orecchie del Pit Bull morente. Poi lo racccolse tra le braccia, carezzandolo con il mento. E lo depositò davanti alla porta d’ingresso della fattoria.
Rowena non si accorse di nulla. Finchè non varcò la soglia. Calpestando il sangue del cane sgozzato. Mentre l’ombra sopraggiungeva con calma alle sue spalle. Ripulì la lama sul vestito della governante e la osservò alla luce della luna in ambo i lati.
La porta rimasta socchiusa lo invitava verso l’interno. In quel punto le voci intonarono una melodia musicale. Sembravano soddisfatte di lui…

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Prot – file 8 di 13

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Il dolore lo percorreva lungo il corpo come un brivido gelato e spigoloso. La testa rintronata pesava quanto un macigno e le luci attorno agli occhi socchiusi non accennavano a diminuire. Tentò di mettere a fuoco le immagini. Ma tutto gli appariva come un quadro mosso e buio. L’odore di benzina gli salì alle narici. Facendogli recuperare un barlume di lucidità. Portandosi una mano alla fronte si accorse di sanguinare. Fece ricorso alla forza di volontà per scuotersi. Ed un’immagine familiare gli comparve davanti agli occhi.
«..Prot..?!»
bisbigliò con la voce rotta dallo spasimo.
«Si sente bene, sceriffo Constantine..?»
gli rispose l’uomo.
«Che… cosa ci fai tu qui..? Cosa… mi è successo…?»
«Credo abbia avuto un incidente. E’ andato a sbattare. Penso sia meglio abbandonare l’auto. Una fortuna non abbia preso fuoco.. c’è una striscia di benzina che parte da sotto.. vede?»
disse indicandogli il liquido.
L’uomo di legge si appoggiò a Prot, facendosi aiutare a scendere dal mezzo. Percorsero pochi passi verso la strada a ritroso dei solchi scavati dai pneumatici. Nonostante le numerose ecchimosi sembrava non aver riportato fratture.
Si sentì sollevato dalla constatazione, seppure ancora parzialmente confuso.
«A-aspetta… c’era qualcuno… qui fuori, a piedi. Ho dovuto evitarlo all’ultimo momento…»
ricordò sfiorandosi la fronte insanguinata con la mano destra mentre il soccorritore lo sorreggeva a sè.
«Mi dispiace, sceriffo.. Ma quando sono arrivato io c’era soltanto lei che si lamentava dentro l’auto… ho visto da lontano l’incidente mentre facevo quattro passi attorno alla città…»
poi lo aiutò a sedersi sul bordo della pista spoglia.
Il ferito si cinse il capo con le mani. Ricostruendo a fatica gli ultimi avvenimenti della sua vita. La preoccupazione per la figlia, la visita al medico di Babeltown, padre di una delle amiche di Angela, il buco nero riguardo la presenza del nuovo venuto, le perplessità sulla natura dell’individuo accanto a lui. Tuttavia, se si fosse trattato di un complice di Mark Littercrown con cattive intenzioni, avrebbe avuto il tempo necessario per agire quando si trovava privo di sensi dentro le lamiere del mezzo uscito di strada.

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«Io… stavo venendo a cercarti, Prot… devo sapere cosa è successo dentro il Siestahombre. Devo sapere perchè le ragazze non si ricordano di te…»
lo incalzò guardandolo di sottecchi.
«…Ha una brutta ferita alla testa. Vuole che le cerchi un dottore?»
gli rispose Prot quasi non avesse sentito la domanda.
«No!» continuò Armand Constantine visibilmente spazientito «Quello di cui ho bisogno ora sono risposte!»
«Ma io le ho già riferito l’accaduto, sceriffo. Ho solo tranquillizzato Mark… nulla di più.»
Con la testa meno stordita ed aiutato da un moto di collera crescente, afferrò un braccio di Prot estraendo dalla cinta un paio di manette. Con una rapida torsione gli bloccò i polsi dietro la schiena facendo scattare i ferri.
«Devi darmi delle risposte. E me le darai!»…


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Prot – file 7 di 13

Rowena si accingeva a chiudere le imposte delle stanze con espressione corrucciata e pensieri preoccupati, mentre Angela si rilassava guardando la tv. Non avrebbe saputo spiegare il motivo esatto del suo stato d’animo. Il ritardo da parte del padrone di casa, in se stesso, non significava nulla di particolarmente allarmante. Il ruolo che svolgeva nella comunità texana esigeva una presenza pressochè continua nelle questioni dei concittadini. Una chiamata imprevista poteva strapparlo dalle sue ore di riposo in qualsiasi momento della giornata. E, probabilmente, questo stava passando per la testa della figlia. La governante di colore, invece, era di ben altro avviso. Istintiva per indole tendeva a dar ascolto a quanto le sensazioni le trasmettevano. Ed un sentore di angoscia le permeava l’animo quella sera.

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   Attraversò le camere da letto, il piccolo salottino e raggiunse la cucina. I mobili in legno d’abete incorniciavano gli interni arredati con gusto, ma in modo spartano. Nel piccolo atrio che conduceva agli scalini d’ingresso era stato appeso un quadro ritraente lo sceriffo e la giovane moglie, dipinto dalla sorella di quest’ultima. I colori vividi e caldi davano l’impressione di un sentimento forte e passionale vissuto dalla coppia di sposi. Rowena sostava spesso a scrutare l’opera. Le piaceva rammentare il lato emozionale del suo datore di lavoro. Un uomo che, talvolta controvoglia, si costringeva ad apparire più freddo di quanto realmente fosse.
   Chiudendo l’imposta della cucina cercò con lo sguardo il fedele Cheyenne. Il Pit Bull nero non manifestava mai apertamente la sua presenza, ed abbaiava di rado. E sempre per motivi mai futili. Una volta fu in occasione dell’indiano ubriaco giunto a cavallo ed andato a sbattere contro lo steccato del cortile. Un’altra per un coyote passato troppo vicino al ranch durante le ore notturne e finito in una tagliola dimenticata da chissà chi. Si sentiva sicura con Cheyenne attorno. Nè scorse la sagoma silenziosa ed immobile a qualche metro di distanza. Ormai avvolta dalla cappa scura dell’oscurità. Leggermente più rilassata, la donna chiuse il battente in legno ed aprì il rubinetto del lavandino per lavare le stoviglie. Si ricordò solo allora di non aver ancora portato la biancheria sporca nel lavello della cantina. Con lo spavento vissuto per la vicenda del Siestahombre, le faccende domestiche ne avevano risentito quanto lei. Si diresse precipitosamente in bagno e prese con sè il sacchetto con gli abiti da pulire. Sul pianerottolo incrociò il Pit Bull che non mutò posizione al suo passaggio. Compiuto qualche altro passo, la sua attenzione venne però richiamata in basso. Le sembrava di aver calpestato del liquido. Nel pallido riflesso della luna si sforzò per capire di cosa si trattasse. La lingua scura e densa proseguiva dai piedi della governante sino alle spalle.
«…Cheyenne…?!?»
sussurrò notandola infilarsi sotto la figura dell’animale.
La ragione cercava di offuscarle i sensi, di non recepire la realtà. Eppure, suo malgrado, la natura di quel liquido era indiscutibile.
Poi le furono serrate le labbra. Un braccio forte e robusto le circondò il petto. Una mano decisa e spietata sollevò una lama fredda nell’aria.
Rowena si rese conto a malapena di quanto le stava accadendo. Il dolore le smorzò il respiro. I lamenti strozzati ruppero la notte in arrivo.
Nel salottino, Angela restava assorta a guardare uno spettacolo di teatranti che suscitavano ilarità. La serata si prometteva interessante…

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Prot – file 6 di 13 • [post del blog: numero 100! :) ]

“E’ possibile che sia io ad essermi immaginato tutto…?”
valutò Armand Constantine per una frazione di secondo. Era un uomo estremamente stabile ed equilibrato, lo sceriffo di Babeltown. Ma anche una persona estremamente pragmatica, in grado di esaminare ogni singolo aspetto di un problema attribuendo la stessa importanza ad ognuno. Per quanto l’ipotesi fosse contraria alla logica del suo raziocinio aveva considerato anche se stesso come la causa del problema. Se la figlia Angela poteva essere mentalmente scossa per il grosso rischio corso, altrettanto non era possibile per l’amica Sophie. Non nel medesimo dettaglio.
«Capisco… beh, probabilmente ad entrambe è sfuggito nel trambusto generale…» provò a destreggiarsi cercando di dare poco peso all’argomento «Ora, se volete perdonarmi, è meglio che faccia ritorno a casa. Preferirei parlare ancora un po’ con mia figlia…»
«Ma Armand, cosa…»
«Lascia stare, Tom. Non è importante. Davvero. Però mi faresti una grossa cortesia se accompagnassi in ospedale Angela domattina, per degli esami approfonditi…»
«Certo… non ho alcuna difficoltà…»
lo rassicurò il medico con aria perplessa.

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Lo sceriffo salutò rapidamente l’amico e la figlia Sophie. Prima di rientrare aveva deciso di recarsi in città. La casa dei Johnson era ad una distanza intermedia tra la sua ed il confine con Babeltown. Gli sarebbero occorsi non più di dieci minuti per varcarne il confine e raggiungere la locanda di Martha. Questa volta avrebbe fatto parlare Prot. Non sapeva ancora come esattamente, ma desiderava delle risposte. Quell’uomo restava avvolto nel mistero più totale. Privo di documenti di identità, aveva soltanto espresso il desiderio di lasciare la città il giorno successivo; il 27 luglio.
Le prime ombre della sera erano già calate all’orizzonte, coprendo con un lungo manto bruno le cime più alte della catena rocciosa che circondava la zona. Rammentava le condizioni in cui Mark Littercrown si trovava appena uscito dal Siestahombre. E se era riuscito a ridurre un criminale pluriomicida in un bambino piagnucoloso, chissà cosa poteva aver fatto alle tre ragazzine. La strada accidentata si apriva davanti a lui come la gola arsa di un gigante che non vede acqua da giorni. Nonostante i fari del fuoristrada si prodigassero ad illuminare il percorso, le tenebre sembravano inghiottire il paesaggio con repentina cupidigia.
I cactus si stagliavano ai lati, come delle silenti e spigolose sentinelle, a spezzare la monotonia della pianura.
Quando la sagoma scura comparve improvvisa di fronte al veicolo dell’uomo di legge, tuttò precipitò in un istante.
Tentò disperatamente di sterzare per evitarla. Il gesto brusco ed i riflessi pronti evitarono l’impatto diretto. Ma il mezzo rovinò fuori dalla pista. La frenata decisa riuscì a rallentarne la corsa. I grossi pneumatici scavarono dei profondi solchi nella terra. Senza risparmiare però un violento impatto contro uno dei numerosi cactus, che fermò definitivamente il veicolo dopo svariati metri in scivolata.
Il clacson prese a suonare. Un lamento unico e prolungato a riempire il vuoto e l’assenza di altri suoni.
La figura sbucata dal nulla osservò per alcuni istanti il fuoristrada. Il muso profondamente ammaccato aveva quasi abbattuto il fusto spigoloso contro cui era finito. Dalle lamiere non si notava il minimo movimento, ed una striscia di liquido denso e scuro fuoriusciva lentamente dalla parte posteriore. Gli dedicò la propria attenzione privo di particolare impegno. Quasi a soddisfare una morbosa e sterile curiosità. Quindi l’oggetto perse ogni valore nei suoi pensieri bui. Si voltò ed incamminò verso Ovest.
In una cinquantina di minuti a buon passo, o poco più, sarebbe giunto in vista del ranch. La fattoria dei Constantine…

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Prot – file 5 di 13

Sulle prime pensò che Angela fosse rimasta sotto choc. Avesse rimosso la violenza dalla sua mente. Come un rubinetto aperto, a cui si toglie il flusso dell’acqua per evitare perdite. Ma il padre le aveva parlato. Con cautela, con domande mirate per capire. Risultava un quadro perfetto, l’accaduto era ben vivo nella memoria della figlia. Eppure non vi era alcuna traccia di Prot. Decise di chiamare il dottor Johnson; il medico della piccola cittadina texana. Era stato lui ad effettuare i controlli generali sullo stato delle ragazze. Ed oltretutto era il genitore di una delle amiche coinvolte insieme ad Angela.
Affidò la figlia nelle mani della governante di colore ed uscì verso l’auto. Rassicurando su un suo pronto ritorno, imputando come causa alla sua imprevista uscita un giro di controllo nella parte meridionale dei loro possedimenti terrieri. Una mezza bugia poichè, da diversi giorni, Peter Mulligan, il bracciante che gestiva la terra, lo aveva invitato a verificare le condizioni in cui si trovava la staccionata.

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Utilizzò quella scusa per risalire sul fuoristrada e comporre il numero di casa del dottore per avvisarlo della sua repentina visita.
«Buongiorno sceriffo… come sta Angela?»
gli chiese aprendogli la porta Sophie, la seconda delle tre ragazze finite in ostaggio al criminale.
«Meglio, grazie Sophie.. ma vedo che anche tu, per fortuna, sembri già ripresa dallo spavento…»
osservò Armand con relativa sorpresa. La giovane veniva additata come la più emotiva del piccolo gruppo di amiche.
«Armand… entra, entra.. Va tutto bene a casa..? Mi sembravi agitato al telefono..»
li interruppe il medico sopraggiungendo alle spalle della figlia.
«Oh si, Tom.. non ci sono dei problemi gravi… almeno credo…».
Lo fecero accomodare in salotto versandogli due dita di whisky.
Tom Johnson era il classico medico di provincia. Una persona alla buona e disponibile verso i concittadini. Nonostante fosse ormai sulla mezza età, il fisico longilineo e minuto gli donavano un aspetto giovanile e scattante, se confrontato alla stazza ben più piazzata dell’amico sceriffo. In breve, Armand lo mise a conoscenza dei suoi timori.
«Che dirti… io sono arrivato quando te ne stavi tornando verso il tuo ufficio. Non ho vissuto granchè della brutta giornata passata dalle nostre figlie. Posso solo ringraziare la sorte che si sia concluso tutto per il meglio..»
«Ma.. è possibile che Angela abbia subito una specie di.. vuoto di memoria?»
Constantine si fece più diretto avvicinandosi al medico ed abbassando il tono della voce.
«In una situazione del genere, le persone reagiscono nei modi più.. svariati. Vedendola non mi sembrava affatto il caso di sottoporla ad una visita approfondita in ospedale. Ma se può farti stare più tranquillo, ce la posso portare io stesso domattina.»
«Te ne sarei davvero grato, Tom…»
gli ripose adagiando la schiena contro il divano e tirando un sospiro liberatorio.
«Ci sono dei dettagli particolari che non rammenta…?»
«C’è un particolare, si. Anzi, forse l’unico particolare. Il più importante! Non si ricorda di Prot…»
«Prot..?!» chiese il dottore con aria interrogativa.
«Oh, scusami Tom… dimenticavo che quando sei giunto tu al Siestahombre stavamo appunto per recarci al mio ufficio. E non hai assistito… Però, se non ti dispiace, possiamo chiedere a Sophie. Anzi, volevo giusto parlare anche con lei…»
disse volgendosi verso la giovane rimasta accanto all’entrata del salotto. Sentendosi al centro dell’attenzione, la figlia del medico provò un senso di disagio. Ma non si sottrasse alla richiesta dell’uomo d’ordine.
«Come vuole, sceriffo Constantine.. anche se non so come poterla aiutare. Neppure io ho visto questo… Prot.».
Il padre di Angela, allora, rabbrividì…

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Prot – file 4 di 13

Mark sentiva le voci. Le voci gli avevano detto cosa fare e come farlo. Gli avevano permesso di trovare il momento opportuno per lasciare la sua cella e la prigione. Lo avevano protetto e guidato. Ma erano strane. Si facevano sentire in modo imprevisto. Arrivavano senza una pianificazione precisa e predisposta. Perlomeno non secondo i tempi scanditi da un normale orologio.
Potevano restare assenti per intere giornate. Quindi ritornare più volte nello stesso giorno.

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Quando avveniva, Mark non era la stessa persona di sempre. Riusciva a mantenere la sua indole. L’aggressività. Ma, quello che faceva, non era più governato dalla sua testa. Inseguiva un filo sottile. Una sorta di traccia preesistente. Quel che restava nella sua mente oltre a ciò era pura confusione.
All’inizio riteneva si trattasse di una sorta di giustizia divina. Magari mandatagli dal padre, un religioso, per permettergli di scontare le uccisioni perpetrate nella vita.
Poi comprese però di essersi ingannato. Le voci non lo guidavano verso un’improbabile redenzione. Lo usavano. Dalla fuga all’irruzione armata nel Siestahombre. All’utilizzo della forza per minacciare degli ostaggi. Poi tutto era diventato più indistinto. Un sottile strato di ovatta e polvere che lo avvolgeva come un manto insidioso.
Rammentava solo di aver pianto. Qualcosa o qualcuno lo aveva indotto a farlo. Forse le voci stesse in un autodafé per quanto compiuto sino a quel momento. O forse no. Non sapeva cosa volessero esattamente da lui. Sapeva però che riuscivano ad ottenere qualsiasi cosa. Erano forti. Più forti di quanto lui fosse mai stato. Più pericolose delle armi che usava. Gli parlavano dapprima in modo lento, sinuoso, appena percettibili. Poi in un crescendo di diapason, in una cacofonia che gli martellava l’udito. E Mark non aveva altre scelte se non quella di eseguire il volere delle voci.
Ora era ammanettato. Sopra un furgone della polizia con degli agenti armati a controllarlo a vista. Lo percepiva più che vederlo veramente. Quando l’ovatta formava dei leggeri spiragli di luce. Avrebbe desiderato chiedere agli agenti che gliela togliessero. Ma il suono gli moriva in gola da quando lo avevano preso in consegna. Eppure non poteva sopravvivere in quelle condizioni. Non poteva essere il burattino di nessuno. Lui era Mark Littercrown. Rispettato e temuto dagli altri galeotti. Si era fatto un nome nell’ambiente. Un marchio insanguinato che capeggiava indelebile sulla fronte. Improvviso, giunse un altro spiraglio. Vedeva chiaramente l’ambiente circostante, adesso. Comprendeva di avere le mani dietro la schiena ma le gambe libere. Seduto su un lato del furgone, in mezzo a due agenti vigili e due altri di fronte. Si piegò su se stesso. Come se una tremenda fitta gli avesse colpito lo stomaco. Quando uno degli agenti davanti a lui si chinò cautamente per controllare le sue condizioni, fece scattare il suo piano disperato.
Con una terribile testata colpì la guardia in pieno volto, facendola crollare a terra dolorante. Le due ai fianchi lo presero per le braccia cercando di trattenerlo con la forza. Inutilmente. Sollevando di scatto le gambe scagliò lontana anche la seconda guardia di fronte, con un’altra testata si liberò della terza al suo fianco. La sola rimasta illesa cercò di trattenerlo da dietro, stringendogli le braccia attorno alle sue, schiacciate sul tronco. Con un’energia erculea, il prigioniero si alzò di scatto. Usò il proprio peso per sbattere più volte l’agente contro la paratia in ferro. Liberandosi anche da quest’ultimo. Uno di quelli a terra si attaccò alle gambe ed un secondo si stava già rialzando, ma ormai l’assassino era riuscito ad afferrare un uzi. Pur senza riuscire a mirare, con le mani dietro la schiena, esplose una raffica a ventaglio. Urlando. L’attimo successivo, il veicolo prese a sbandare ed uscì di strada rovesciandosi sul suolo accidentato. Strisciando per diversi metri prima di schiantarsi contro delle rocce vicine e prendere fuoco…

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Prot – file 3 di 13

La casa di Armand Constantine si trovava a pochi chilometri dal margine estremo di Babeltown. Nel bel mezzo di un possedimento terriero, appartenente alla famiglia da diverse generazioni. Dal ranch, ampio e sobrio, si scorgevano le montagne dalle cime frastagliate, a diretto contatto con l’orizzonte e le nubi di passaggio. Mentre le cupole eterogenee della vicina cittadina, da lontano, apparivano sottoforma di un denso agglomerato di puntini colorati sulla tela di un pittore naif. Più di cent’anni prima, il bisnonno di Armand lo aveva preceduto nella carica di sceriffo.

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Quando quella zona di Texas era persino più selvaggia ed impervia. Ed il bestiame, la risorsa economica principale degli abitanti. Poi arrivò la ferrovia, l’industria e la recessione. Le famiglie iniziarono ad abbandonare l’Ovest, per recarsi nel promettente Est. Nelle grandi metropoli, come Boston e New York. Anche i Constantine seguirono la stessa strada. Ma il piccolo Armand aveva nel sangue la smania degli spazi aperti ed incontaminati. Nella testa fotografie e ricordi dell’avo. Nel cuore il desiderio di confrontarsi con la natura selvaggia. Ebbe la fortuna di entrare nelle forze dell’ordine e chiese presto il trasferimento nella sua Babeltown. Conobbe Michelle e si sposarono dopo pochi anni. Una coppia felice, che possedeva quanto desiderava: la libertà dell’aria aperta. Angela nacque al sesto anno di matrimonio. Una figlia accettata con gioia, sebbene non cercata particolarmente. Una figlia che si portò via la madre. E l’amore paterno dovette venirne a patti. Superando il dolore per una perdita immensa. Angela ora costituiva il suo bene maggiore; avendo scelto di non cercare più alcuna donna in grado di sostituire Michelle. Ed era un bene che aveva rischiato di essergli strappato violentemente poche ore prima. Provava un nodo allo stomaco che lo lacerava al solo pensiero, la testa minacciava di girargli. Incolpava se stesso per essere andato tanto vicino a mettere in pericolo la propria figlia. Sebbene la ragione (ed Armand, nonostate le forti passioni, sapeva comportarsi da persona estremamente razionale) lo rassicurasse del contrario. Cheyenne, un Pit Bull dal manto nero, macchiato di chiazze bianche a forma di stella sul torace, svolgeva come sempre il ruolo di guardia al ranch. Nelle ore serali si appostava accanto all’ingresso. Scrutando l’area circostante. Attento ad ogni minimo movimento e rumore fuori dalla norma. Gli si fece incontro festoso. Precedendo di qualche istante Rowena; l’insostituibile domestica che si occupava di tutte le faccende casalinghe, e che lo aveva aiutato a crescere la figlia.
«Signor Constantine… buonasera. Angela sta riposando sul divano. Ma è tranquilla.»
Gli disse subito, intuendo il motivo del precoce arrivo. Con la sua sola presenza trasmetteva serenità. Di fisico robusto e di colore, Rowena portava la sua esperienza di donna da poco oltre la mezza età. Carezzando lievemente Cheyenne, che lo affiancò sino alla porta, si limitò a risponderle con un cenno di sollievo. Angela lo abbracciò appena oltre l’entrata, lasciando il comodo divano.
«Va meglio ora..?»
«Si papà. Non preoccuparti, davvero. Sto benissimo. Non era necessario che arrivassi presto…»
«Oh beh, sono le fortune che si hanno nel potersi gestire da soli. C’è sempre il telefono, se servo…» le disse ammiccando.
«Se e quando hai voglia di parlarne… sono qui.» aggiunse.
«… Quello che è accaduto lo hai visto anche tu, papà. In realtà è avvenuto tutto in fretta. Questo tizio è sbucato dal nulla, armato. Minacciando tutti e chiedendo da bere. Avevamo paura, parecchia. Ma è andata bene…» gli rispose lei abbracciandolo di nuovo.
«Bene… certo, certo.. Siamo stati fortunati che ci fosse quel Prot…». Angela lo guardò interrogativa «..Ma, papi… c’eravamo solo io, le mie amiche, ed il vecchio Smith, là dentro…
Chi è questo… Prot..?»…

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