«Sei l’ombra di quello che eri… dove sono i tuoi scagnozzi? scommetto che non riesci più a fare presa neppure su di loro.»
Natasha Zavarovna era un fiume in piena. Rendendosi conto di quanto avesse temuto la figura davanti a lei, di quanto avesse ingigantito il male che avrebbe potuto farle oggi.
«Come sei riuscito a spaventare mia sorella? cosa le hai fatto?»
«Ho scoperto… dove abitava…» iniziò a sibilare l’uomo traendo forza dal perno offertogli dal proprio bastone «le ho telefonato… le ho ricordato i giorni della guerra… i giorni… e tutto il resto.»
«E lei ha avuto un malore, maledetto. Hai investito ogni tua risorsa per trovarci, non è così? non ti sarebbe riuscito altrimenti… e ora sei rimasto solo; con il tuo odio e il tuo rancore. Guarda a cosa ti ha condotto la tua esistenza… volevi questo? volevi quello che hai “regalato” a me? io non ho avuto scelta… ma tu… tu…»
Zava si coprì il volto con le mani aperte singhiozzando un miscuglio di emozioni. Emozioni trattenute, spesso messe da parte per non soffrire e per non fare del male, per non vedere scorrere la vita di fianco su un altro binario; un binario chiuso.
«Ma sai cosa ti dico? che io ho deciso di cambiare strada. Basta con le privazioni. L’amore dura il tempo che dura ed è meglio viverlo intensamente, fino all’ultima goccia, che lasciarsi mettere da parte per la paura di soffrire.»
Svetlan le prese la mano e la strinse forte, come se quelle parole fossero state in grado di ridargli gli anni perduti. E lei lo ricambiò con uno sguardo pieno di dolcezza e di… liberazione.
Poi entrambi diedero le spalle a Rasputin, o a quello che ne rimaneva, per tornare all’aria aperta.
«Sei consapevole di quello che ti aspetta adesso, piccola zarina?»
Lo guardò con espressione serena, come se improvvisamente un terribile peso le fosse stato sollevato dal petto.
«Come ho detto là dentro, Svetlan; si. So quello che ho perduto in questo tempo, so che non sarà facile vedermi ogni giorno come se non fossero trascorsi che pochissimi anni, invece di mezza vita intera. Ma so di avere una sorella che avevo lasciato per cercare di proteggere, so che ho una nipote da conoscere e so, soprattutto, se lo vorrai, di avere te.»
Poi si baciarono. Le labbra non erano quelle di due persone tanto evidentemente diverse di età all’apparenza. Il calore era lo stesso di un tempo. Della sera prima della partenza di Zava, di quando decidendo di non sopportare altrimenti, di non rischiare la sofferenza propria e quella dell’amato nel vedersi invecchiare e svanire a velocità tanto diversa, aveva stabilito di vivere altrove, lontana.
«Ci sono così tante cose da raccontare… ma una te la voglio dire sin da subito, zarina. Una la devi sapere adesso perchè per me è come se non fosse passato nemmeno un…»
Portò con tenerezza l’indice della mano destra davanti alla bocca del ragazzo di ferro per non fargli terminare la frase «ssssttt… avremo tutto il tempo necessario. Che siano pochi anni o pochi mesi non mi importa più; riusciremo a recuperare, in qualche modo, quello che abbiamo perso. Ma non hai bisogno di dire altro… ciò che provi tu lo sento anche io, Svetlan; riprendiamo a vivere da dove eravamo rimasti.»
Attesero abbracciati, sostenendosi l’un l’altra, il taxi che li avrebbe riportati verso l’ospedale.
Mentre solo, immobile a osservarli da dietro una finestra spoglia, rimaneva Rasputin. Posò gli occhi sopra il palmo della mano libero dal pomello del suo sostegno di legno, scorrendo lungo solchi lasciati dagli anni, sciancato nel fisico e nello spirito, rendendosi conto, forse per la prima volta veramente, di avere smarrito per sempre il sentiero impervio della leggenda.
«Mi chiamavano… mi chiamavano… il monaco oscuro…».
Autore testi: Keypaxx © Copyright 2006-2012. Tutti i diritti riservati.
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